C’è una questione del teatro e c’è una questione di Venezia, oggi piu’ che mai. Ovvero si tratta di due crisi storiche che si incrociano, si rifrangono  e in qualche modo si raddoppiano. La città che ha inventato nel 1500   gli edifici in pietra, l’impresariato e gli attori di piazza in maschera, nel 1600 la scenografia musicale, nel 1700 la scena specchio e la scena lanterna (coll’avvocato Goldoni) nonche’ la moltiplicazione dei circuiti tra prosa, conservatori e melodrammi, nel 1800 le tecnologie illuminotecniche, si vede sempre piu’ svuotata di senso e di futuro nella relazione dinamica colla ribalta. Questo anche perche’ il palcoscenico tende ormai a fuggire dal suo territorio, cosi’ come i suoi abitanti residenziali, sostituiti dalla ressa turistica e dalle strategie speculative private. Insomma, il teatro non rappresenta piu’ un affare e pertanto l’amministrazione se ne sbarazza volentieri. Nondimeno, proprio in tanta povertà è consentito continuare ad operare attraverso piccole iniziative decentrate, in cui quartieri e cittadini escano dalla solitudine, dalla rassegnazione e dalla paura ricominciando l’antico gioco dell’imitazione/creazione di vita. Non tanto festa, come le utopie del ’68 propugnavano, recuperate dalle Biennali del tempo, ma conoscenza e ricerca nello scambio e nella rotazione tra interpreti e spettatori.