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Seminario "A che punto è la questione Venezia" - intervento di ALBERTO MADRICARDO

Abbiamo proposto questo seminario con l’idea di cominciare a definire un intreccio, un reticolo di concetti che possano servire da base per un’operatività successiva comune.

Il fatto è che, a mio avviso, stiamo vivendo una fase di dissoluzione dei vecchi schemi e di difficoltà a costruirne dei nuovi adeguati alla situazione. Quello che io chiamo “il paradigma della politica del ‘900” è evidentemente in dissoluzione e la creazione appunto di nuovi concetti, di nuovi elementi che ci permettano di inquadrare la realtà è ancora largamente da costruire. Da qui credo anche la difficoltà a inquadrare i problemi. Il problema di Venezia ci viene incontro negli ultimi decenni, ed è una cosa nuova. Non che il problema di Venezia non esistesse prima: da secoli  Venezia e la sua unicità sono sempre state un enigma, un problema di difficile soluzione su cui si sono cimentati diversi pensieri, diversi protagonisti. Ma negli ultimi decenni è emerso chiaramente che la tradizionale dialettica tra Venezia e la modernità stava entrando in una fase decisiva. Questo problema del rapporto tra Venezia e la modernità lo propongo come filo conduttore per l’interpretazione  della storia di questa città negli ultimi due secoli, che credo oggi sia giunta a un momento cruciale.

Nella  vicenda della città, dopo la caduta della Repubblica di San Marco, si sono susseguiti diversi tentativi di modernizzazione: quello francese, quello austriaco, quello italiano, quello fascista, quello che chiamo democristiano. Quello democristiano è l’ultimo, comincia negli anni ’70, e si propone l’obbiettivo che stiamo raggiungendo: quello che noi oggi stiamo vedendo, cioè lo svuotamento della città, la dissoluzione del tessuto civile, è ormai arrivato quasi al suo compimento. All’inizio degli anni ’70, nel “Progetto ‘80” della Confindustria veneta – come riportato dai giornali del tempo - si dichiarava esplicitamente l’obbiettivo di portare Venezia a 50.000 abitanti, di farne un porto turistico (non per Grandi Navi perché allora queste non c’erano ancora) e di farne una città per ricchi. La formula giornalistica di questo obiettivo che io  ricordo era: ”per abitare a Venezia bisognerà meritarselo”, cioè avere i soldi.

Questo era il progetto che si è puntualmente realizzato ed è giunto quasi al suo compimento. Diciamo che il progetto di modernizzazione portato avanti dal fascismo, che mirava a rendere Venezia una città industriale, omogenea alle altre, anzi destinata a fare da base dell’espansionismo italiano ad oriente, è fallito per una serie di ragioni, tra cui, non ultima, lo scoppio della seconda guerra mondiale. Quindi la modernizzazione in questo senso non è riuscita, ma è riuscita una modernizzazione paradossalmente opposta, quella che ho chiamato “democristiana” progettata negli anni ’70. Una modernizzazione che invece che perseguire l’omologazione in senso moderno della città, ne enfatizza l’unicità e ne persegue  la compiuta estetizzazione, cioè la sua trasformazione in uno scenario estetico, che prelude poi alla sua vendita al turismo, e alla gigantesca speculazione  di cui oggi siamo testimoni. Questo obiettivo consapevolmente perseguito dalla classe dirigente democristiana è riuscito. Anche perché è stato condiviso, o quanto meno subito, dalle amministrazioni di sinistra che si sono succedute nell’ultimo trentennio. Ora l’ultima “modernizzazione” favorita dalla globalizzazione, è arrivata quasi al suo compimento.  La  modernizzazione ha quasi cancellato Venezia, svuotata la sua comunità civile e svenduta al turismo di massa, negato la sua unicità, che consisteva nel suo essere una città normale in un ambiente fisico e urbano eccezionale. Venezia resa mero scenario di attrazione turistica è finalmente un luogo come gli altri - umani o naturali - come le rovine di Pompei, il Gran Canyon del Colorado ecc. 

Cosa non funziona in questo progetto? Ciò che non funziona -  che poi non funziona - in generale in questo paradigma della modernità che è stato applicato anche a Venezia, è il fatto che questo modello non prevede la rigenerazione del  contesto che usa. In pratica esso prevede l’uso delle risorse, in questo caso di ciò che David Harvey chiama il capitale simbolico della città, ma non la sua rigenerazione. Esso prevede solo il suo sfruttamento fino alla sua dissoluzione ultima.

In che modo si può prevedere la rigenerazione del capitale simbolico di questa città? Attraverso la dialettica tra la straordinarietà della città e una normalità - quotidianità della vita che vi si svolge. A Venezia questa dialettica è per così dire rovesciata: l’utopia - in un ambiente così strano, così inadatto a una città come quello lagunare , è sempre stata la normalità.

Voglio raccontare un piccolo aneddoto, che credo molto significativo. Una volta, un paio d'anni fa, un turista mi fermò per strada. Non per chiedermi un’informazione su come arrivare da qualche parte. Voleva sapere solo se la città fosse abitata. Quando udì la mia risposta positiva il suo volto assunse un’espressione insieme di stupore e di ammirazione.

Che cosa vuol dire questo? Secondo me che solo una dialettica continua, sempre rinnovata, tra straordinarietà dell’ambiente e normalità della vita che vi si svolge può garantire un rinnovamento, una rigenerazione del carattere non banale di questa città. L’estetizzazione prelude alla banalizzazione di ciò che è stato estetizzato. Lo straordinario soltanto, non dialetticamente connesso con la normalità, scade rapidamente nella banalità del cliché. Dunque questo è il punto debole, il punto strategicamente di inadeguatezza di fondo di questo modello distruttivo che poi ripropone la stessa logica che, durante l’industrializzazione, è stata applicata negli anni ’70 all’ambiente nel Veneto: la dissipazione dissennata del territorio,. Quindi, il punto debole, il carattere irrealistico, dico io, di questo “modello di razionalità” che viene applicato a Venezia, sta nel fatto che non garantisce la riproduzione del suo capitale simbolico, come non ha garantito quella del “capitale naturale” di questa regione. 

La riproduzione del capitale simbolico, dicevo, richiede una dialettica tra il contesto straordinario e la normalità della vita, cioè tra la urbs nella sua forma fisica e la civitas, la cittadinanza che abita questa forma. Nel dibattito su Venezia nei decenni scorsi il problema della civitas viene quasi completamente trascurato. La cittadinanza è considerata come un’appendice inessenziale di questo gigantesco monumento. Questo implicito, per cui la comunità che vive e si riproduce normalmente nell’ambiente eccezionale di Venezia viene considerata per questo “non meritevole” di viverci, è abbastanza condiviso, cioè è una carenza non solo di una parte politica, ma della nostra mentalità della nostra cultura.

Io penso che siamo a questo punto non solamente perché una parte politica o degli interessi hanno affermato certe loro preminenze o prevalenze, ma anche perché complessivamente la nostra comunità è stata scarsamente consapevole di se stessa, del valore  della normalità di cui è depositaria, arrendevole ad assoggettarsi a dinamiche  per  lei disgreganti e alienanti. Tutti noi abbiamo avuto una cultura di cittadinanza, incapace di sostenere questo problema, questo grande onere: di essere – come cittadini – chiamati a mantenere Venezia una città normale – cioè viva – nella sua straordinarietà. Fini a noi stessi, al nostro essere comunità, e non docili  strumenti di progetti speculativi pensati e portati avanti in larga parte da altrove. Perciò oggi ci troviamo in una condizione di distruzione della civitas, di dissipazione del capitale simbolico, ma anche – ed è inevitabile - di quello fisico. Il capitale simbolico che oggi viene messo sul mercato sarà rapidamente consumato e non più riprodotto, insieme a quello fisico. Quindi stiamo dominati da logiche miopi che non prevedono  redenzione ma sono  meramente dissipative.

Ma il problema di Venezia va inquadrato più in generale in quanto una delle difficoltà che si incontrano è quella di contestualizzare i problemi. Noi non abbiamo un racconto condiviso perché non abbiamo ancora collocato nello scenario generale il posto che deve avere questo problema. Che problema è questo di Venezia? È un problema locale? Io penso che questo non sia solo un problema locale ma che la dialettica tra luogo e processi di globalizzazione sia una caratteristica, un elemento dominante di questa epoca storica in cui siamo entrati e che anche a partire dal problema di Venezia si possa iniziare a costruire un nuovo paradigma della politica adatto alla realtà in cui  ci troviamo oggi.

Noi viviamo in un contesto di tramonto degli Stati-Nazione. Anche se sembra che ci sia un loro prepotente ritorno per  contraccolpo alla globalizzazione, questo ritorno che ripropone  il passato è un elemento della loro decadenza, perché è un passo indietro, un regresso. Non sono dinamici, proiettati in avanti.

Lo Stato-Nazione ha una vita oramai in declino. Il contesto dinamico, proiettivo per eccellenza io credo sia quello della città. La città è tradizionalmente spazio dell’elaborazione della politica, dell’utopia, degli slanci della sperimentazione. Quindi la città diventa, in questo contesto in cui oggi noi siamo entrati, cruciale come luogo di controtendenza alla chiusura che oggi invece sembra essere l’elemento più vistoso delle dinamiche dominanti. Gli Stati-Nazione vengono richiesti, come “tane” in cui rifugiarsi, da masse popolari sempre più disorientate che si sentono tradite dalle élite tradizionali e che richiedono perciò protezione, chiusura delle frontiere contro l’immigrazione, contro la concorrenza, etc. Quindi l’elemento dominante sembra oggi quello involutivo.

La città per sua natura – a differenza degli stati - non ha confini, è un polo d’attrazione, e quindi come tale – cioè come polo aperto e non come forma chiusa -  può presentarsi prima di tutto come una categoria politica fondamentale nella formazione di nuove strategie politiche, di proposte di apertura, in una logica di universalizzazione contraria a quella della chiusura che porta ineluttabilmente verso la guerra. D’altra parte poi, come afferma il sociologo canadese Robert Park, la città è il tentativo nel complesso più riuscito da parte dell’uomo di plasmare il mondo in cui vive. La città è – dico io -  costruzione sociale di realtà. La realtà è infatti linguisticamente costruita  attraverso complessi processi di socializzazione di cui la città è il risultato percettivamente più spettacolare. Mentre lo stato non si può fisicamente vedere, la città si può anche, nella  varietà e complessità della  vita sociale che vi si svolge,  abbracciare con uno sguardo.

Se noi togliamo la città, togliamo una struttura essenziale della costruzione sociale di realtà in cui “ci ritroviamo” e  siamo perciò ricacciati in una logica di atomizzazione,  isolamento, e insensatezza che questa globalizzazione selvaggia senza alternative prepara per l’umanità: il mondo destinato a diventare una grande periferia senza centro. Non stiamo parlando solo di Venezia, stiamo parlando della città in generale. È la città come tale, come creazione tipicamente europea, che caratterizza la nostra civiltà, a differenza di quelle orientali. Karl Marx diceva che la città orientale è essenzialmente un accampamento principesco, cioè si costituisce intorno alla figura centrale dell’autorità politica. La nostra città invece è un’altra cosa, la nostra città ha al suo centro non il palazzo del Potere, ma la piazza, la agorà, lo spazio del possibile in cui si intrecciano sempre nuove relazioni, si producono nuove esperienze e inedite sperimentazioni.

Negli anni ’60 Henri Lefebvre ha parlato di diritto alla città. Il diritto alla città è poco recepito – egli scriveva -  ma il diritto alla città è il diritto a ricostruire individualmente e insieme il proprio contesto. È un diritto fondamentale dell’uomo, giacché è il contesto - che inquadra le sue azioni che non possono attuarsi nel vuoto – che gli consente di ricreare il proprio senso. Quando noi parliamo della città intendiamo riferirci al contesto nel quale noi possiamo riprodurre il senso della nostra vita,  dei nostri rapporti. Contestualizzarci insomma. Sempre David Harvey, riferendosi anche a Henri Lefebvre, dice “per come è costruito oggi, il diritto alla città viene confinato in ambiti troppo ristretti, nella maggior parte dei casi nelle mani di una esigua élite economica e politica che può plasmare la città in base ai propri bisogni e ai propri desideri”.

Noi abbiamo bisogno di ricostruire un racconto collettivo che sia la base poi di un impegno comune nella ricostruzione della città, che avverrà con modalità politiche diverse dal passato. Abbiamo bisogno di ripensare in particolar modo ciò che è accaduto a Venezia e che cosa essa è oggi, collocando ciò nella dinamica generale di questo tempo. Noi dobbiamo cogliere il nesso tra quanto sta accadendo a Venezia e  ciò che avviene in qualche modo in tutto il mondo:, la dissoluzione degli spazi, la dispersione delle comunità, l’atomizzazione, la passivizzazione degli individui, l’alienazione generale.

La città diventa un luogo cruciale in cui si può invertire questa logica. Quindi noi dobbiamo inquadrare in questo contesto la nostra battaglia per Venezia: non è una battaglia locale, è una battaglia generale per la salvezza della comunità cittadina, che assorbe in sé anche le esigenze di giustizia e di riequilibrio al suo interno. Le tematiche che erano tradizionalmente della sinistra politica vengono in questo quadro riproposte oggi in modo più maturo, cioè non più come rivendicazione di una parte sociale, ma direttamente come affermazione delle esigenze di governo della comunità territoriale, la cui salvaguardia e fioritura devono essere considerati  fini primari della politica.

La battaglia per Venezia è dunque condotta dall’interesse generale contro interessi particolari. E’ condotta sulla base a una visione di sintesi di governo, non di parte, di opposizione. All’opposizione – per quanto potenti e intrusivi - sono i grandi interessi delle multinazionali, per esempio quelle delle Grandi Navi, perché, anche se dominano, non fanno sintesi, non si fanno carico dell’insieme. Dobbiamo essere consapevoli che questo rovesciamento di posizioni è uno degli effetti più eclatanti della globalizzazione.  Le comunità locali oggi  incarnano l’ossimoro  della “opposizione governante”.

Certo devono connettersi tra di loro per contare anche a livello nazionale e internazionale. Si devono creare reti di associazioni all’interno delle città che facciano  prevalere l’aspetto dell’orizzontalità su quello verticale della tradizionale politica, che si è dimostrata particolarmente arrendevole, quando non collusa, davanti agli interessi sfrenati, indifferenti e ostili alle esigenze delle comunità, dei territori, dell’ambiente.   Bisogna creare collegamenti con l’opinione pubblica internazionale, formare un nuovo blocco culturale e politico che riesca a invertire questa tendenza, verso un’alternativa alla logica distruttiva di questo modello oggi dominante e a quella pericolosissima, a essa connessa, di chiusura che la globalizzazione crea per contraccolpo,  foriera di nuovi fascismi e di nuove avventure terribili come quelle che abbiamo già vissuto in passato.

Il punto di partenza è comunque quello di definire con chiarezza che cosa  intendiamo per  città e per comunità di cittadinanza. Questa base concettuale va delineata in modo chiaro, perché noi abbiamo agito in questi decenni sempre in un’ambiguità che ha prodotto danni  enormi. Va anche  messo meglio a fuoco il rapporto qui/altrove, fondamentale nella nuova politica. Con questo seminario oggi proponiamo di iniziare  insieme  un percorso che contribuisca a offrire alla nostra città la strumentazione di cui  ha bisogno per superare  vittoriosamente questa fase cruciale  della sua esistenza millenaria.