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Paolo Cacciari, Perché la politica ha ingegnerizzato il problema Venezia

Grazie Alberto, grazie Gianni per l’invito. La formulazione dell’invito è molto difficile, ci chiede di scoprire la dialettica fra i linguaggi e non tra i discorsi. Cioè, tra gli strumenti mentali, tra i sistemi cognitivi che vengono prima, che sono dentro di noi, spesso nascosti, che sono alla base delle argomentazioni. Quindi l’invito che ci fate è quello di superare un po’ la dialettica tra Guelfi e Ghibellini sul MOSE; tra le scuole di idraulica di Alvise Cornaro e Cristoforo Sabbadino, tra le scuole degli idraulici e quelle degli ecologi, e capire invece le ragioni di come mai, nella storia della Venezia contemporanea, è prevalsa la scuola degli idraulici, con i suoi particolari strumenti cognitivi, di indagine e quindi con le sue soluzioni, mentre invece è stato sconfitto il punto di vista degli ecologi. Questa è l’amara realtà dei fatti, questa la vera questione. Per riferirmi alle cose dette da Franco Miracco: questa è la vera “tragedia di Venezia”.

Secondo me la vera tragedia di Venezia è che è la sua salvaguardia è stata ingegnerizzata. Domandiamoci perché è prevalsa una simile impostazione, meccanicista, riduzionista. Io me lo sto chiedendo da una vita. Avevo 17 anni nel ’66 con l’alluvione. Come mai si è potuto affermare e (quasi) realizzare un progetto così mastodontico, così macchinoso, così pesante, così di difficile se non impossibile gestione, oltre che costosissimo, inutilmente costoso. Mi è parsa bella questa  definizione del MOSE data da Alberto Vitucci: un marchingegno anaffettivo.  

Per trovare la risposta io credo che dovremo scavare e non fermarci alle facili evidenze. Le risposte che spesso ci diamo sono certo vere, ma rischiano di essere parziali. Qui sono più d’accordo con Franco Miracco: non siamo solamente di fronte ad insipienza scientifica, a manipolazione politica e a corruzione. Tutto ciò è ben presente nel MOSE, basti pensare alla sua storia durata oltre mezzo secolo, già prima del 4 novembre 1966, con le prime commissioni, i primi studi dei due laboratori Grandi masse e Biologia del mare del CNR. Una storia che è stata anche la decadenza, la mortificazione, l’annientamento delle strutture tecnico-scientifiche dello Stato: CNR, università, Magistrato alle acque. Ci sono le denuncie documentate di Antonio Rusconi che era a capo dell’Ufficio idrografico del Magistrato alle acque, e sono gridi di dolore: “… guardate che qui non stiamo facendo nemmeno più i rilievi dei flussi delle acque…”. Se facessimo un grafico dello smantellamento dei presidi tecnici pubblici e invece la creazione degli uffici del Consorzio vedremo una forbice che si allarga. Così come è avvenuto per tutto ciò che è pubblico in Italia.

C’è l’insipienza, il decadimento, c’è l’affarismo, il grande business delle grandi opere, le concessioni alle grandi imprese: dighe, strade, alta velocità, ospedali eccetera. Gli stessi padroni dei padroni dei grandi giornali, a cominciare dai Caltagirone. Sappiamo bene che c’è tutto questo. Sappiamo che c’è la corruzione, che ci sono gli abusi: da Nicolazzi a Matteoli, da Cremonese a Galan mi pare che sia straordinaria questa continuità della corruzione nel nostro paese, che arriva fino ai dirigenti degli enti locali, che arriva fino alle cose più vicine a noi. Una catena senza fine. Ma se noi ci fermiamo qui - secondo me - diamo delle risposte ancora parziali, quasi rassicuranti. La risposta più giusta, più bella, più profonda e illuminante, mi sembra sia proprio quella che Alberto ha dato, che voi avete dato con questo convegno: il senso delle cose sta oltre tutti i linguaggi che le rappresentano.

E’ un modo di pensare che si avvicina molto alla mia cultura  ambientalista e di “aspirante ecologo”. Un altro modo per dire che la somma delle parti non raffigura mai il tutto. Perciò non bisogna confondere una parte con il tutto. Cghe invece è proprio quello che è accaduto con il MOSE: pensare che un’opera di ingegneria idraulica avrebbe risolto “il tutto”; non solo la salvaguardia della città, della laguna, dell’ecosistema, della bioregione, ma anche i problemi di compatibilità e di sostenibilità della portualità.

Le informazioni sono quelle che collegano le parti e che fanno vivere e funzionare qualsiasi sistema vitale, mentre la frantumazione porta alla morte degli ecosistemi e degli organismi viventi. Lasciatemi citare una cosa bellissima che ha scritto l’altro giorno in un articolo Vandana Shiva: “I sistemi viventi si adattano, si rigenerano, non sono ingegnerizzabili. Il dominio del paradigma ingegneristico inizia con l’era dei combustibili fossili, l’era dell’industrialismo e del meccanicismo, un sistema di conoscenza fondato sul paradigma meccanicistico, riduzionistico e materialistico. Crediamo di essere fuori e al di sopra della Terra, crediamo di controllarla, di esserne i padroni, ed ecco che i cambiamenti climatici, gli eventi estremi, i disastri ci ricordano con sempre maggiore frequenza che siamo parte di una Terra, ogni atto di violenza che distrugge sistemi ecologici minaccia anche le nostre vite, dobbiamo trasformarci da specie predatrice e incurante a specie che si prende cura, che lavora in co-creazione e co-evoluzione con la terra”.

Edoardo Salzano ha scritto: “Due visioni alternative si sono scontrate a Venezia: una logica sostanzialmente meccanicistica che tendeva a isolare i problemi e a dare loro soluzioni indipendenti e fortemente ingegneristiche, e un’altra logica sistemica che si proponeva di evidenziare le relazioni tra le dinamiche in atto. Questo è lo scontro scientifico, culturale che è avvenuto”. Lasciatemi fare anche un altro rimando ad un altro testo che a me pare fondamentale , alla “Laudato si’” di Bergoglio, quando parla di “ecologia integrale”, di ecologia umana, di rivoluzione culturale che ha inizio dal sapersi concepire come parte integrante e dipendente dal buon funzionamento dei cicli vitali ecosistemici.

Quando diciamo che in questa città abbiamo perduto la cultura dell’acqua, che confondiamo mare e laguna, barene e sacche di colmata, velme  e burghe … significa che abbiamo perduto un’empatia che porta anche a comportamenti e a stili di vita  insostenibili, distruttivi del liquido amniotico dentro cui vive questa città, inseparabile dalla sua laguna. Bellissimo questo ultimo racconto di Ferrucci che si intitola Venezia è laguna. Se la città costruita si separa dalla città d’acqua si fa un’operazione di distruzione di una cultura, di una storia, oltre che di un ecosistema.

Perché tutto questo lo dico partendo dal linguaggio della politica? Perché il linguaggio della politica non è ecologico, è ingegneristico, ha scelto questo e ha scartato quell’altro. Ha scelto l’artificiale al vivo. Il linguaggio della politica è quello del dominio. Il linguaggio della politica come affermazione ed esercizio del potere, come comando sugli altri e sulla natura, esclude quindi altri tipi di rapporti più evoluti, di compartecipazione, di sostenibilità. Attenzione, sostenibilità è una parola ambigua. Alcuni la intendono come ricerca di un compromesso, di una  compatibilità, non come vicolo. Nel nostro caso si è detto: rendiamo compatibili il porto e la laguna. E’ qui l’origine del disastro del MOSE.

La politica come comando dall’alto ha bisogno quindi di una mediazione del linguaggio scientifico cartesiano, scientifico meccanicistico, scientifico riduzionistico; ha bisogno di avere una validazione delle decisioni che cala dall’alto “indiscutibile”. Ecco perché a un certo punto -  veniva ricordato anche adesso da Angelo Marzollo - nella storia di Venezia entrano in gioco come principali alleati dei politici i tecnici. Nella storia del progetto che poi si è chiamato MOSE,  ho contato almeno nove tra comitati, comitatoni e gruppi di “saggi” (scelti nel modo che Vitucci ha detto) chiamati a validare i progetti sulla laguna. Un modo di fare che ha catturato e corrotto (sto parlando in termini morali, non sono io un magistrato inquirente),  per esempio, le facoltà di Idraulica di Padova e di Genova, i laboratori del CNR, oltre, naturalmente agli uffici del Magistrato alle Acque. Ci sono casi di porte girevoli di persone che cambiano stipendio, che passano da dirigenti del CNR alla Thetis o al Consorzio. Si tratta di consulenze, di direzione lavori, perfettamente regolari, fatte alla luce del sole. Gli esperti, i super tecnici, i sapienti entrano in gioco come principali alleati dei governi. Decisori politici e istituzioni scientifiche sono legati doppio filo.

In tutto ciò vi è una verità profonda che non riguarda soltanto questo caso, riguarda tutti noi, riguarda la cultura diffusa. Roberto Ferrucci scrive una cosa bellissima, dice: attenti ci sono “i truffatori del buonsenso, i sabotatori del paesaggio”. Grazie agli esperti avviene il miracolo: le navi non fanno più onde, il Canale dei petroli non è un problema,  i bilanci dei sedimenti (erosione) sono in  equilibrio e così via contro ogni evidenza. Si creano modelli matematici su modelli matematici giganteschi per negare il buonsenso. Si tratta di una verità profonda: i saperi esperti annullano i saperi esperienziali, i saperi contestuali, i saperi tradizionali, la “cultura del pescatore”. Le osservazioni dirette non contano più nulla, contano solo i modelli matematici che sono riduzionistici per natura. Chi ti dice: “guarda che lì c’è l’onda”, non conta nulla; contano solo i calcoli che si creano al computer. Ciò comporta quello che Alberto Vitucci scrive in un articolo: la passivizzazione della cittadinanza. Tu devi credere alla scienza, quindi tu non devi pensare, non devi neanche osservare, non devi vedere l’onda di risucchio che crea la nave, perché la “scienza” -  cioè queste élites tecnocratiche che governano non solo la finanza ma governano anche il moto ondoso -  ti dice che tu sbagli a essere preoccupato [Umgiesser dal pubblico: “non è la scienza che dice questo”]. Dico la comunità scientifica ufficiale, perché io ho ancora da trovare un professore di idraulica (che non sia già andato in pensione) che abbia parlato diversamente. [interruzione incomprensibile dal pubblico]

La mia tesi è probabilmente molto estremista; sto dicendo semplicemente che ci sono due modi di pensare, uno cartesiano, meccanicistico, e uno invece sistemico, ecologico, che si basa anche [dal pubblico: “non sono necessariamente in contrasto”] sulla percezione diretta delle persone. È una tesi di cui mi assumo tutta la responsabilità.

La mia tesi è che nel linguaggio politico ci sono due parole che bisognerebbe tenere presenti: emergenza,  salvezza. L’emergenzialismo serve a legittimare un intervento politico, diciamo, straordinario, ma settoriale. Il ’66 non è stata solo la laguna di Venezia. Il ’66 non è stato solo Firenze. I morti, per fortuna, non vi sono stati a Venezia. Il Sile ha rotto in laguna. E’stato il primo disastro a livello nazionale che ha dimostrato quella rottura planetaria degli equilibri naturali di cui oggi tutti parlano. Quindi le risposte settoriali sono servite semplicemente per tamponare la mancanza di politiche organiche di difesa del territorio. Ci sono voluti 30 anni per avere la legge 181 sulla difesa del suolo, che peraltro è rimasta inattuata.  L’emergenzialismo serve per negare da parte del potere statale ogni intervento organico, serio, complessivo. Scriveva sempre Alberto Vitucci, l’altro giorno, che una città viva dovrebbe parlare al mondo, non guardare solo a difendere il proprio culo dall’acqua alta. Venezia avrebbe dovuto diventare il centro del discorso contro il cambiamento climatico nel mondo, dovevamo essere noi il faro della conduzione di questa lotta, non gli indigeni delle isole Figi che stanno facendo una battaglia più cosciente di noi sui problemi globali. Questa è la morte di Venezia: non capire che i propri problemi sono inquadrati in una dimensione globale [mostra alcune diapositive]. Racconto sempre questo aneddoto: gli svizzeri benestanti durante la guerra fredda si sono costruiti i bunker antinucleari in giardino: ecco noi siamo uguali, succede questo disastro del riscaldamento globale e noi ci costruiamo il nostro bunkeretto alle bocche di porto. Forti dell’egoismo di essere la città più bella del mondo, non capiamo in che mondo viviamo, che tipo di battaglia bisognerebbe fare per cambiare il mondo.

Allora arrivano i salvatori. Seconda parola chiave. La salvezza di Venezia arriva con le Leggi Speciali. Venezia diventa “problema nazionale”. Badate bene: non il dissesto idrogeologico generale , ma Venezia. Dal 1982 inizia la sfilata dei salvatori: comincia Fanfani che porta i primi quattrini con le  fanfare, le euforie, le collettive autoesaltazioni. Quante volte hanno detto: “abbiamo salvato Venezia”? qui c’è qualcuno che sempre esagera un po’: il Sole24Ore che profetizzava: “i privati salveranno Venezia”, riferendosi alla nascita del Consorzio Venezia Nuova. E abbiamo visto com’è andata. Franco Miracco dovrebbe ricordarsi: la Corte dei Conti ha resistito per un po’, ma poi è crollata. Non è vero che tutti i politici siano uguali, Visentini e anche Mario Rigo, per dare onore a tutti, si opposero alla concessione unica, videro per tempo i pericoli di quella deriva. Ma ho finito il mio tempo.

[Uno scritto più organico e completo è disponibile sul sito www.eddyburg.it]