C’era una volta il teatro, a Venezia

IERI All’origine, il Teatro a Venezia si svolge all'aperto. Si mescola alle cerimonie Istituzionali e alle ritualità cittadine. Il Canal Grande, in fondo, rappresenta  il vero palcoscenico di una mobile  spettacolarità. Sulle sue acque, infatti, si snoda in modo compulsivo la nutrita serie di parades festive, regate storiche, processioni e liturgie sfarzose, matrimoni fiabeschi della nobiltà locale a mescolare il proprio sangue con quello ancor più blasonato e internazionale di famiglie regali. Grandi eventi storici vi si consacrano nelle puntuali ripetizioni calendariali, in una religiosità di tipo politico. Nel frattempo, alle spalle di questo piccolo e magico fiume la scena si afferma con prepotenza, nelle tante piazze che lo vedono emergere non in quanto festa identitaria e formatrice di consenso ma quale gioco popolare e fuga fantastica dal mondo. Così da un lato le antiche Momarie, che suggellano l’elezione del Doge, e la pratica delle giostre,  le tauromachie, i  tornei cavallereschi e le entrées  per nozze principesche. Non solo en plein air, però, perché allo stesso tempo la città favorisce.  il sorgere dei primi edifici di pietra, all’inizio  dimore nobili,  addobbate per eventi estemporanei, teatri effimeri  per eventi privati, con varie associazioni culturali a gestirne lo svolgimento, e dove maturano gioielli come la Venexiana scoperta dallo studioso Lovarini in Marciana nel 1928. Spazi poi sostituiti da sale pubbliche, mimetizzate nell’intrico delle calli e degli ingorghi di abitazioni, quasi a nascondere la peccaminosa tentazione della finzione, e insieme a contrassegno di una organica mescolanza colla quotidianità. Bisogna aspettare il neoclassico di Selva per la Fenice, aperta nel 1792 negli anni terminali del millennio della Serenissima, e l’unica sala ancor oggi rimasta viva da quel mondo scomparso, per avere una frontalità esposta dell’ingresso. Venezia inventa anche i biglietti d’ingresso, in un primo momento chiamati bollettini, a scandire il traffico dei palchettisti da parte  di lobbies effettive, col  subaffitto dei posti a stranieri, specie i diplomatici. Proprietari blasonati investono così  sui circuiti,  e da autentici  azionisti si impegnano nell’impresa (persino  l’introduzione di sale da gioco ad aiutare i bilanci), a differenza di altre nobiltà, più parassitarie nella nostra penisola, si pensi a quella spagnola. A Venezia, ancora,  si affermano le prime formazioni professionali, la scenografia immaginifica, il melodramma,  supportato dalle sue dive canore, più comunicativo ed esportabile fuori dai confini della Repubblica, rispetto al dialogo,  riformato e depurato dai virtuosismi acrobatici delle maschere. Nel Settecento,   l’offerta scenica della città si moltiplica  in    una vera e propria macchina industriale, nell’accezione  moderna, per la perfetta compatibilità tra qualità artistica e strategia di mercato. Ben dodici palcoscenici, ad un certo punto sedici, quattro Ospedali-Conservatori in perfetto anticipo su Cinecittà o Hollywood,  su Soho londinese o Broadway newyorkese. In più, calendari fittissimi, dall’apertura autunnale alla ripresa col lungo carnevale, e appendici musicali durante l’ Ascensione. Un’offerta teatrale avvolgente, insomma, cui risponde un   tifo da bar sportivo, grazie alle infinite querelles, alimentate da almanacchi e gazzette, dalla febbrile editoria in un’epoca non protetta nei diritti relativi, dai caffè, dalle epistole, dai manifesti. Un morbin  attorno alle prime, coi partiti pro e contro, e le riprese, le parodie e  i plagi e i pastiches. E  nella drammaturgia Carlo Gozzi, accademico illustre dei Granelleschi,  per sfida ai gusti della platea e difesa della lingua dalle derive vernacolari rinnova la tradizione del fiabesco, tramite trame futili, nella sua ossessione anti illuminista o il ricorso all’esotico e all’onirico.  In risposta l’avvocato Goldoni riesce a stendere a poco a poco i suoi testi avendo a che fare col Fo di quegli anni, il mitico Sacchi, o una cordista come la Maddalena Marliani, su cui costruisce personaggi complessi,  da la Serva amorosa alla Mirandolina della Locandiera. Ma la sua riforma deve convivere con spettacoli pirotecnici, balletti e danze circensi,  féeries dove la parola è strumento marginale e minoritario. E anche sulla sua lingua italiana, si pensi alla Trilogia della villeggiatura   una miracolosa pronunciabilità, quasi un secolo prima delle riflessioni manzoniane. Intorno vigila la censura, divieti e limitazioni ad opera del vento moralizzatore dei Gesuiti e dei loro sodali all’interno del Consiglio dei Dieci, in particolare durante calamità come la peste o le guerre. Una sala sporca, quella veneziana, per lo più, male illuminata dalle candele, ammorbata dal tanfo di folpi e pere cotte, sorbetti e  piscio se non peggio,   sputi dall’alto delle casette, i palchi-alcova, rumorosi per le continue ciacole,  certo anfratti poco casti, in quanto la gioventù (e non solo) si concede vizi   che il buio agevola,  nonostante   i birri in borghese a impedire eccessi a oltranza. Scontata la contiguità di questi edifici coi lupanari, vedi San Cassiano, numerosissimi in laguna  come i casini, appartamenti privati utilizzati dai nobili per le loro svaghi tra  carte da gioco, mescite e femmine, o i ritrovi popolari, interclassisti, ossia le botteghe d’acqua e di caffè, le malvasie coi celebri vini greci, i magazeni colle cibarie, i bastioni o taverne, tutti locali in cui si ritagliano stanze e separé per coppie indisturbate. E si sa quanto mitizzata, nelle rotte dei primi turisti europei, si pensi all’innocente (?) commozione provata da Goethe davanti alle Baruffe chiozzotte, la complementarietà  tra attrici e cortigiane.     

OGGI Poi arriva con Napoleone una  politica recessionistica, colla impietosa soppressione di sale, motivata coll’anagrafe cittadina ormai in caduta verticale, dopo il crollo della Repubblica. Metamorfosi dei luoghi, ad esempio il San Samuele, inaugurato nel 1655, distrutto per costruire sulle sue fondamenta una  scuola  alla fine del 1800, e il Sant’Angelo che ha ospitato la riforma dell’Avvocato colle sue sedici commedie, chiuso bruscamente nel 1803.  Meglio non   confrontare tanto splendore  colla desolazione di oggi, non solo nazionale, ma proprio veneziana.  Una decadenza irreversibile, specie nel secondo dopoguerra,  siglato col celebre e cinico calembour del teatro in laguna ridotto al Ridotto, a rendere il deprimente quadro locale.  L’incendio drammatico nel 1996 che distrugge la Fenice costituisce la metafora compiuta di tale disfacimento, mentre a sua volta il Goldoni, riaperto nel 1979, non più salotto al centro della città Stato, appare provincia di un Nord Est alla deriva, gestita per di più dalla Regione,  e insieme Stabile declassato.

DOMANI A fianco di un’offerta ormai impoverita, spunta la dimensione internazionale a cercare invano di nasconderla. La scena novecentesca, colle sue disperate utopie e le sue tante ambizioni, a resistere contro i nuovi media, sbarca in laguna, ultima tra le altre sezioni della Biennale, dopo quella pioneristica delle Arti figurative, inaugurata nel 1895. Tra il  7 e il 28 luglio del 1934   la  manifestazione decolla con due classici. Nella corte dietro il teatro a San Luca,  si mettono in moto i cicalecci e le maldicenze de La bottega del caffè, diretta da Gino Rocca,  e  Raffaele Viviani nella parte del napoletano Don Marzio, saccente e pettegolo. Al concertato del repertorio goldoniano   seguono le lacerazioni antisemite. Nel contiguo campo di San Trovaso, risistemato dall’architetto veneziano Duilio Torres, un grande regista tedesco, ebreo, Max Reinhardt,  mette in scena il Mercante di Venezia, rivalutato nelle sue ragioni di  emarginato,  con Memo Benassi, gonfio di orgoglio e di registri patetici nel ruolo del protagonista, e Marta Abba, la musa inquietante di Pirandello, nei panni di Porzia.  Poi, con cadenza annuale quasi sempre rispettata, tranne  gli anni di guerra, e per lo più in autunno, Venezia diviene vetrina  del meglio che offre il palcoscenico mondiale, con un aggiornamento significativo delle tendenze più autorevoli nella produzione internazionale. Ma quel che riporta  il sogno del plein air  nella sua  radicalità è la gestione di Maurizio Scaparro,  dal 1980 reinventore della festa carnevalesca.  Si vuole di nuovo valorizzare la rete dei campi, sprecati teatralmente, e abbandonati   a giostre e bancarelle, adesso rimesse in gioco, alla lettera.  La scena, ricollocata nella sua cornice gioiosa, torna  a  proiettarsi e  dilatarsi all’aperto,  disseminandosi in un’energia   bacchica tra maschere  tripudianti. Una recita retorica in realtà, nella misura in cui simula di far tornare un passato trionfante, non più recuperabile. Ma reinserire il teatro nella festa  rischia  di far la festa al teatro. Quel che avviene puntualmente alla fine degli anni ’80, col progetto carnevalesco riassorbito in meccaniche stereotipie ad opera  degli assessorati municipali e dalle aziende turistiche. Allo stesso modo, le utopie palingenetiche del ’68 producono malintesi, nell’intento pedante di accostare avanguardie estetiche a avanguardie di classe, come è il caso di Cassio governa a Cipro, rifacimento dall’Otello strampalato del funambolo Manganelli,  portato a Porto Marghera nel 1984 a disorientare gli operai, e a risospingerli verso il nfetsival di Sanremo. Meglio, molto meglio i gesti dell’avvenire, che a  volte la Biennale la  dischiudere da alcune iniziative piccole ma significative. Ne scegliamo due, gonfie di futuro. Da un lato, la necessità di educare lo spettatore, dall’altro l’urgenza di portare la scena fuori dalla scena, dove serve a chi la fa, non solo a chi la guarda.

Primo gesto. Nel teatrino dell’Avogaria  Giovanni Poli    presenta nel 1958 La commedia degli Zanni, balletto astratto di  impatto surreale, ambigua compresenza di stilizzazioni decadenti e di corporalità viscerali, il tréteau nu  popolato dall’arcano e dal sogno.  Ma lo stesso Poli parte da un altro orizzonte ideologico,   nell’Associazione dell’Arco, centro culturale operativo in città dal 1946, costituito da intellettuali,  poeti, pittori  come Pizzinato e Vedova, critici come Luigi Ferrante,  teatranti  come Arnaldo Momo. Quest’ultimo, privo di una sede teatrale,  prova per una vita colla sua compagnia, Teatro 7  nel salotto di casa. Ebbene questa saletta di 100 posti  viene riutilizzata per ospitare alcuni spettacoli off e poi mostrati al rallentatore, come alla moviola, durante la direzione di Wladimiro Dorigo, per un pubblico di addetti, minoranze certo ma accese da una condivisione di competenze e motivazioni. L’iniziativa   sembra realizzarela visione pasoliniana del suo Manifesto del ’68, là dove si auspica la nascita di piccoli gruppi di provincia che leggano insieme un teatro di parola e di poesia.

Secondo gesto. All’estremo opposto, il teatro animazione che fermenta nelle scuole, di cui la Biennale registra l’importanza innovativa. Ecco allora i maestri torinesi Remo Rostagno e Bruna Pellegrini che mostrano al pubblico veneziano il Piccolo Principe, riscritto nel 1971 da una classe  elementare di Beinasco, in cui i vari pianeti del viaggio al centro del romanzo di Saint Exupéry vengono riempiti di contenuti socialmente pregnanti, la desolazione e il disagio di una periferia cittadina abbandonata da Dio e dagli uomini. Spettacolo per famiglie, in cui sono i figli ad educare i genitori.