Intervento di Maria Teresa Sega

CREATIVITA’ E RIVOLTA

Penso sia chiara a tutti la relazione tra arte  e rivoluzione, basterebbe citare le avanguardie artistiche del primo Novecento (futurismo, costruttivismo, dadaismo, rivoluzione surrealista) e l’internazionale situazionista degli anni Sessanta, considerando solo i movimenti, non i numerosi artisti impegnati.

A me interessa, non tanto fare un elenco, ma sottolineare il ruolo dell’arte,  o più in generale della creatività come pensiero divergente, attraverso tecniche varie che adottano il rovesciamento, l’irrisione, il nonsense, la ricerca di un nuovo linguaggio, ma anche di azioni che crea un nuovo simbolico.

Il tema di oggi è arte riguardo alla città come spazio di relazioni, teatro dove agire un’azione collettiva trasformativa.

Restringo l’arco temporale al decennio 1968-’78, rappresentato nella vulgata come “gli anni di piombo”, che sono stati anche anni di creatività politica dei movimenti e di conquiste civili, dove si afferma il protagonismo di nuovi soggetti come i giovani e le donne.

Penso che il passaggio all’uso della violenza rappresenti il fallimento della politica, l’afasia, la mancanza di parola, l’inaridimento della fantasia (Hanna Arendt, Sulla violenza, 1972). Al contrario i movimenti non violenti adottano la creatività come linguaggio della critica e prefiguramento del cambiamento, a partire da sè , qui ed ora, come affermava e praticava il Movimento femminista, la rivoluzione culturale di quel decennio che ha prodotto le trasformazioni più significative sia sul piano sociale che su quello esistenziale.

Non è casuale forse se coloro che sono considerate le fondatrici della liberazione femminile (“Rivolta femminile”, 1970), Carla Lonzi e Carla Accardi, siano l’una critica d’arte e l’altra artista. Una delle caratteristiche di quei movimenti è il corpo in pubblico. Le femministe usano il linguaggio del corpo giocato sul rovesciamento (“le streghe son tornate”), sulla gioiosa liberazione da stereotipi, ruoli, modelli imposti: girotondi, sagome, fiori, colori. Un nuovo soggetto collettivo femminile prende la parola e irrompe nella scena pubblica.

Voglio però parlare di un’altra rivoluzione culturale, quel movimento avviato da Franco e Franca Basaglia  che porta alla Legge 180 (1978) sulla chiusura degli ospedali psichiatrici , perché credo sia un interessante esperimento di arte-liberazione e arte-città.

Fine 1972, nasce a Venezia, a casa di Franco Basaglia che all’epoca dirigeva l’ospedale psichiatrico di Trieste, l’idea di un lavoro collettivo all’interno del progetto “manicomio aperto”, ci sono Franca Ongaro Basaglia, Vittorio Basaglia (il cugino artista) e Giuliano Scabia (scrittore a autore teatrale). In seguito si aggiungeranno altri, come Gianni De Luigi, attore e regista. 

Gennaio ’73, nasce in un padiglione svuotato dell’ospedale psichiatrico di Trieste il “laboratorio aperto”,  che vede al lavoro insieme medici, insegnanti, psicologi, sociologi e studenti; si presentano ai “matti” come artisti (“artista, dice Basaglia,è chiunque esce dal proprio cerchio e reinventa il suo ruolo in rapporto agli altri”). 

Scabia scrive un diario giorno per giorno, dal 4 gennaio al 25 febbraio 1973, data dell’uscita nella città. (Marco cavallo. Un esperimento di animazione in un ospedale psichiatrico, Einaudi 1976; riedizione aggiornata Alfabeta 2011) “Ci siamo resi conto che esistono due tipi di creatività – scrive Scabia - : quella che la professione obbliga ad avere e quella che nasce dal confronto continuo con la realtà”.

Dalla cronaca traggo in sintesi i passaggi fondamentali:

Il laboratorio aperto è uno spazio attrezzato con colori, carta, pennelli, libri, dove si inventano storie, si rappresentano, si discute, si dipinge, ognuno crea il proprio pupazzo. Sono a disposizione fogli di grande dimensione per rompere le limitazioni del piccolo formato. Ognuno disegna liberamente. I disegni e le storie vengono appesi a creare il “paradiso”.

Gli artisti producono dei volantini che vengono distribuiti nei reparti e un po’ alla volta arrivano i “matti”. Si comincia a dipingere ritratti e sagome dei corpi.

Trovano un vecchio carrettino, che serviva pe trasportare la biancheria sporca,  e lo trasformano nel teatro vagante per portare in giro i burattini, il giornale murale, i pupazzi, i manifesti.

Si fa strada idea di realizzare un grande oggetto che possa contenere le storie.

Angelina – una paziente anziana – sta disegnando un cavallo con la pancia vuota che vorrebbe riempire. Nasce così  l’dea di costruire un grande cavallo.

C’era stato in passato un vero cavallo che tirava il carretto della biancheria, la direzione voleva abbatterlo perché vecchio e ormai inutile, i malati si opposero e fu risparmiato.

La costruzione del cavallo, a cui si dà il nome di Marco, diventa il lavoro comune: un gigante di cartapesta azzurro con la pancia piena di storie ed oggetti a rappresentare i desideri.

I “matti” arrivano in tanti, sono sempre più coinvolti, arrivano anche giovani dalla città.

Si crea una comunità che cresce mentre cresce il progetto: la storia, i burattini, la canzone,

tutto quello che va sotto il nome di “Marco cavallo” vive ed è reale e pronto ad uscire nella città.

Il laboratorio – scrive Scabia – si è talmente riempito che è stato naturale e necessario a un certo punto uscire fuori.

Tutto il percorso si carica di passaggi simbolici.

Si scopre che il cavallo è troppo grande, bisogna abbattere tre porte per farlo uscire; all’esterno c’è una rete; Franco e Vittorio Basaglia  tentano di  scardinare il cancello usando una panchina come ariete, senza riuscirci. La soluzione si trova: basta inclinare il cavallo per farlo passare.

Finalmente fuori, si crea un corteo che attraversa la città, con bandiere colorate, canzoni inventate, storie disegnate in un grande striscione e raccontate, fino alla cattedrale di S. Giusto. Lungo il percorso si aggregano persone, altre si fermano ai lati della strada incuriosite. La città incontra gli invisibili.

Era ciò che si voleva: stabilire un rapporto, provocare una presa di coscienza, diventare visibili, parlare attraverso il corpo.

Iniziò il viaggio di Marco cavallo che ancora continua.

Nel 1974 arrivò in laguna, per la Festa nazionale dell’Unità, in gondola.

Continuò, anche dopo il 1978, approvazione della Legge 180, a percorrere l’Italia, per la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari. Diventò il simbolo della liberazione degli espulsi. Fu distrutto e ricostruito. Andò in Germani e in Spagna.

Nacque il laboratorio teatrale Accademia della follia, con ex internati diventati attori. Quest’anno, per ricordare il 40° anno della Legge 180, + stato realizzato un spettacolo teatrale intitolato “La rivoluzione nella pancia di un cavallo”, che racconta la storia di Basaglia e del movimento che portò all’eliminazione degli ospedali psichiatrici.

Il teatro vagante prende forme diverse, a seconda dei contesti, niente è fisso. A Venezia il gigante contenitore di storie è una barca: La Repubblica Serenissima chiudeva i folli in una nave. Nei primi anni ’80 gli allievi dell’Istituto d’arte di Venezia costruirono  nel chiostro della scuola una grande “nave dei folli”.

Voglio sottolineare alcuni elementi interessanti da cogliere in questa storia che sinteticamente ho voluto presentare: una pratica di arte in tutte le sue espressioni che produce una comunità, esce all’esterno, crea qualcosa che assume un valore simbolico, riconosciuto da altri e da tutti, caricato di valenze trasformative.

Possiamo fare degli esempi oggi di arte-resistente?   Due esempi di comunità di cittadini che difendono beni comuni: Poveglia per tutti e la VIDA-antico teatro anatomico.

La prima ha adottato una grande giraffa come simbolo che viene portato negli appuntamenti pubblici. La seconda di recente ha realizzato una copia in cartapesta delle “Mani” di Lorenzo Queen – opera che sosteneva Ca’ Sagredo in Canal Grance ora rimossa – con lo slogan: “Giù le mani dalla Vida”.

L’arte rende visibile l’invisibile (Paul Klee), partiamo da qui.