Madricardo Alberto

Polis e téchne

Che cosa può dire la filosofia riguardo al MOSE? Il Mose l’abbiamo visto nelle fotografie, nelle opere esposte è un opera grandiosa un opera che in termini kantiani si direbbe sublime, smisurata, immensa. In epoca di età mitica sarebbe stata cantata dagli aedi e sarebbe stata attribuita non all’uomo ma dagli dei. Noi abbiamo a che fare con questo contenuto, con questo elemento capace di sollecitare la fantasia e suscitare forti emozioni a prescindere dalla valutazioni che possiamo dare sulla sua funzionalità pratica.

Il MOSE è l’emblema, è  il simbolo dell’età della tecnica, della piena affermazione della téchne. Ma quale conseguenza ha il primato della téchne? Questo primato va riferito al contesto in cui si afferma: quello della polis.

Questo è il tema che vorrei brevemente affrontare: il rapporto tra polis e téchne. Cosa ci dice la filosofia riguardo questo rapporto? La filosofia ci dice, con Platone prima e poi con Aristotele, che la téchne è stata, o le téchnai – al plurale - sono state, secondo il mito, donate agli uomini da Prometeo che ha rubato il fuoco, e con il fuoco anche le tecniche, agli dei e lo ha consegnato agli uomini. Ma il possesso delle tecniche, se di per sé consentiva agli uomini di avere la meglio sulla natura, non regolava i loro rapporti reciproci. La téchne insegna a dominare le cose, ad abbattere ostacoli e limiti, di per sé non dispone di nulla che consenta di  contenere la sfrenatezza. Essendo reciprocamente sfrenati, gli uomini, quando s’incontravano tra di loro - come dice Platone - si uccidevano. Salvati dalla téchne dalla prepotenza della natura, gli uomini erano minacciati da quella dei loro simili ed erano incapaci di vivere insieme. Ecco allora che Zeus, preoccupato per la sorte degli uomini, dona a essi “dike” ed “aidos”. “Dike” è – come si sa - il termine greco che indica la giustizia. “Aidos” si traduce spesso con “pudore”, ma io tradurrei, per essere più esplicito, con “senso del pudore”, ovvero con: senso della vergogna. Vergogna di che cosa? Di che cosa ci si può vergognare maggiormente?  Ci si vergogna quando ci si sente fuori posto, non in sintonia con il proprio ambiente. Di che cosa può vergognarsi un greco dell’età  classica? Quando si sente fuori posto?  Egli vede il mondo come kosmos, come ordine di un tutto le cui parti hanno ciascuna un posto assegnato. Il cosmo per lui è regolato da Dike, la legge in base alla quale ciascuno deve mantenersi al proprio posto, nei propri limiti. Egli perciò considera sconveniente, e si vergogna, ogni volta che gli capita di agire senza freni e di constatare di aver commesso eccesso (hybris). Ecco allora che Aidos, il sentimento di vergogna, va inteso come sentimento di riprovazione per se stessi quando si valuta di aver superato il proprio limite. Il possesso delle téchnai non aiuta a mantenersi nei propri limiti, anzi: la téchne accresce e moltiplica le forze dell’uomo, il suo possesso può incentivare  nel suo animo le sue tendenze alla sfrenatezza. Uomini abituati a non darsi limiti nel dominio delle cose difficilmente se li pongono quando, invece che con queste, hanno a che fare tra di loro. Uomini che nel rapporto con i loro simili non si pongono limiti sono gli uni per gli altri più pericolosi delle belve, perché, mentre queste ultime dispongono, nell’aggressione, solo delle loro risorse  naturali, gli uomini, grazie alle téchnai di cui vengono via via in possesso, possono potenziarsi indefinitamente, fino al reciproco annientamento. A che serve agli uomini ottenere il dominio della natura se poi, stimolata la loro hybris attraverso di questo, essi la riversano gli uni contro gli altri fino alla reciproca distruzione?

Il rapporto degli uomini tra loro non può essere concepito e praticato con le stesse modalità che essi utilizzano nel loro rapporto con la natura. Alle altre téchnai che eccitano alla sete sfrenata del dominio bisogna opporne una speciale, che non abbia come fine il potenziamento indefinito degli strumenti di dominio, ma, al contrario, quello di armonizzare quelle che hanno questo fine, abituandole a contenersi nel proprio limite.

Questa speciale téchne, ispirata da Dike e Aidos, indispensabile alla sopravvivenza della specie umana è l’arte politica: politiké téchne, - come la chiama Platone, che la definisce anche basilichè téchne (arte regia). Aristotele la denomina scienza architettonica.

Questa tèchne è diversa dalle altre perché - come dice Platone - non ha – come le altre-  il proprio fine fuori di sé, in cose che manipola e trasforma, ma lo  ha in se stessa: si attua nell’armonizzare le parti della società umana, impedendo che essa si sfasci nella mortale guerra di tutti contro tutti, o, al contrario, che  il predominio di una dia luogo a una pace senza vita, una pace cimiteriale.

Dice Platone, nel Politico, che l’arte politica non deve agire direttamente ma dirigere le tecniche che hanno capacità di agire. Ecco, in questo senso la politica è la regista delle tecniche le quali da sole tendono ciecamente all’indefinito autopotenziamento, alla sfrenatezza, all’eccesso. Quando accade che un’altra téchne s’imponga su quella politica, viene meno l’ideale che sta alla base della polis, quello del kosmos, dell’ordine del  tutto. Allora crolla non  solo l’ordine della polis ma anche quello del mondo, perché il kosmos del mondo gli uomini lo scoprono direttamente vivendolo in loro stessi, imitandolo nell’armonia della polis.

Quando cadono, insieme all’arte politica, Dike e Aidos viene meno l’ordine della città, viene meno la possibilità  della dialettica, quel darsi e chiedere ragione, alla pari, tra cittadini che consente a ciascuno di riconoscersi nelle ragioni dell’altro. Allora l’individuo ricade in se stesso e rimane isolato, spaesato. Allora egli è costretto a cercare surrogati. Allora, per esempio, è costretto a rispecchiare se stesso in un prodotto tecnico, quale è per esempio il selfie. La foto del selfie porta però in sé un enigma e ci lascia in preda a un dubbio insolubile: se il noi che essa ci restituisce sia quello della nostra ineffabile singolarità - che nell’autentico rapporto dialettico è contemporaneamente trasmesso a e ricevuto dall’interlocutore attraverso le parole del confronto - oppure se ciò che ci ritorna dall’alterità della macchina sia solo la sagoma esteriore della nostra esistenza, il soffocante cliché che essa si trova suo malgrado appiccicato addosso e di cui avrebbe bisogno di liberarsi per riconoscersi.

Vedete, l’impossibilità che ci sia un autentico scambio dialettico è proprio una manifestazione estrema del predominio sfrenato della tecnica. Questo predominio ha conseguenze estreme - che adesso dirò richiamando anche qualcosa che nel mondo antico - è già avvenuto. Quando una téchne particolare, non essendo più tenuta a freno dall’arte regia, prevale sulle altre, cosa succede? Abbiamo l’imperium: il predominio assoluto di una sola téchne. Nella tarda antichità questa téchne che prese il sopravvento su tutte e soppiantò quella politica fu quella militare. Essa impose a tutta la società quella modalità di relazioni interumane che va – appunto - sotto il nome di imperium.  In latino questo termine letteralmente significa comando: imperator è il comandante delle truppe, depositario della téchne che organizza e dirige la forza di una pluralità di uomini trasformandola in un’energia concentrata, perché da essa la dialettica è stata espunta

Poiché – come ho detto – ciascun essere umano per ritrovare se stesso ha bisogno di riconoscersi nell’altro - e ciò avviene nello scambio dialettico con lui - la conseguenza fu l’alienazione universale. L’editto di Caracalla nel 312 D.C. conferisce la cittadinanza romana a tutta l’ecumene, ma quella che è data a tutti è una cittadinanza privata, privata di ciò che costituisce l’essenza e l’anima della vera cittadinanza: una cittadinanza diventata il contrario di se stessa, universale alienazione.

Tutti parimenti alienati, tutti resi incapaci di entrare in rapporto con se stessi attraverso la relazione dialogica con l’altro: così divennero i cittadini dell’imperium romano. Mantennero la sagoma esteriore di cittadini, non l’anima.

Una volta prevalsa, non riuscendo a contenersi da sé, la téchne militare giunse, attraverso una sequenza sempre più disastrosa di anarchie, alla distruzione di se stessa, lasciando infine indifesa l’ecumene romana. Oggi potrebbe essere lo strapotere di un’altra téchne, quella economica, a produrre effetti analoghi. Se dobbiamo guardare la vicenda del MOse  - senza entrare nella valutazione di quelli tecnici, sui quali non ho alcuna competenza  - possiamo dire alla luce dei fatti che non la politica ha guidato la tecnica, ma quest’ultima ha subordinato a sé e finalizzato ai propri scopi la politica. Una prepotenza senza freni di ragioni particolari si è imposta, corrompendo e distorcendo a proprio vantaggio il senso dell’interesse generale, rendendo infine anche dubbio il raggiungimento del fine (la salvaguardia della città dalla minaccia delle acque) per il quale il progetto tecnico  è  stato formulato.

E’ il segno e il preannuncio della fine della polis e del rischio di un nuovo imperium nel quale – come in quello antico - la cittadinanza universale coinciderà con la generale alienazione?    

Diceva Heidegger che l’essenza della tecnica non è tecnica: la tecnica pro-duce, cioè conduce davanti e provoca. Citando una famosa poesia di Hölderlin, Heidegger aggiunge che, dove c’è l’estremo pericolo, lì c’è anche ciò che salva.

Se oggi la nostra città è in pericolo – possiamo anzi dire – in pericolo estremo, forse questo dipende da errori che abbiamo fatto nel passato. Forse l’errore più grave è stato quello di considerarla – a causa della sua straordinaria bellezza e unicità come una cosa, un oggetto fisico.   La nostra città – Venezia – l’abbiamo pensata e praticata più come come urbs – come  straordinaria conformazione di edifici e paesaggi creata dall’uomo - che come civitas, viva dialettica di una pluralità infinita di relazioni che continuamente si rinnovano.   

Forse qui sta la causa e l’origine della situazione di pericolo che la tecnica ci pro- duce, ci pone davanti. All’attenzione, quasi in eccesso, alla salvaguardia fisica della città, è corrisposta una totale passività nei confronti del pericolo che, sotto la spinta cieca e sfrenata di interessi particolari,  avvenisse la disgregazione della polis, della sua civitas.  Mentre ci dedicavamo alla difesa della Venezia  fisica dal pericolo dell’alluvione dal mare  abbiamo trascurato – anzi favorito – un’altra alluvione, quella di un turismo selvaggio e incontrollato, per cui noi oggi nel mondo siamo diventati un simbolo  negativo di ciò che non si deve fare. Lo diceva anche la sindaca di Barcellona: non fare come Venezia.

Ma abbiamo la possibilità, credo, di salvarci se riusciamo a cogliere, non piangendosi addosso, la profonda valenza simbolica (universale) di quello che ci accade. Il MOse, in questo senso -  la grandiosa celebrazione della tecnica che esso rappresenta -   ci spinge a prendere coscienza: Venezia è un luogo in cui si attuano i processi mondiali – quello che accade a Venezia accade dappertutto – ma qui essi sono fatti risaltare dall’ambiente unico in cui avvengono in modo estremo, speciale. Perciò noi possiamo essere un laboratorio non solo per l’individuazione dei nostri problemi ed errori, ma anche di quelli del mondo.  Come ha detto recentemente un’artista di cui non ricordo il nome: “salviamo Venezia per dare la prova che si può salvare il mondo”.

Noi abbiamo questa condanna e questa chance allo stesso tempo: il destino di essere un luogo altamente simbolico. Se siamo in grado di partire da questo, di cogliere l’importanza della nostra battaglia, della nostra esperienza non solo per noi ma per il mondo, allora diventeremo una città di tipo nuovo: una città consapevole. Problema universale è quello di riaffermare il primato della dialettica sulla prepotenza cieca e sfrenata della tecnica e degli interessi che stanno imponendo al mondo un nuovo imperium .

La città consapevole fondata sulla dialettica può vincere qui, in questa città straordinaria. Noi vogliamo aver un rapporto autentico con il mondo, noi vogliamo ricevere, ma anche dare qualcosa, e in questo forse siamo una nuova possibilità, una nuova chance sì per noi stessi, ma anche per il mondo. Forse Venezia, città riflessiva, espansione orizzontale del principio verticale della palafitta, che da sempre si regge come un’acrobata su una dialettica difficile e instabile tra diversi fattori sociali, culturali, ambientali, può essere il luogo in cui le esigenze di armonizzazione dei diversi, esprimendosi nel quadro di un nuovo progetto di cittadinanza, offrano un segnale di speranza a un’umanità che teme di essere ormai travolta e alienata dalla sfrenatezza di una tecnica che essa stessa ha generato.