I due volti della globalizzazione
Lo sviluppo esponenziale dell’intercomunicazione e dell’interdipendenza globale, presenta – lo vediamo sempre più – anche dei risvolti pesantemente negativi: non diffonde solo benefici su scala planetaria ma anche gli shock, le crisi, che, da locali, tendono ad avere ripercussioni globali. A loro volta (ne stiamo ora facendo esperienza diretta con la pandemia), queste ultime possono abbattersi sulle località anche più lontane del pianeta, sconvolgendone gravemente gli equilibri.
Pare che non ci sia altra possibilità che continuare ad avanzare sulla strada di crescita infinita che abbiamo intrapreso, o arretrare per ridurre gli effetti e i contraccolpi, sempre più pericolosi, di questa crescita smisurata sull’ambiente finito in cui viviamo.
Ma non è così. Non necessariamente. Gli esseri umani durante la loro difficile storia hanno saputo talvolta evitare le alternative secche e sono riusciti a ottenere ciò che secondo il vecchio preverbio è impossibile: “avere la botte piena e la moglie ubriaca”. Per questo però hanno dovuto rivoluzionare il loro modo di pensare, imboccare vie che prima non avevano mai battuto. Per noi oggi la sfida epocale che dobbiamo vincere è quella di mettere in atto una politica di concertazione globale (ambientale, economica, sanitaria, culturale ecc.) e contemporaneamente elaborare strategie di difesa e di sviluppo delle diversità locali ambientali, sociali e culturali, organizzando i luoghi in sistemi consapevoli, dinamici, aperti ma anche resistenti e resilienti.
L’orizzonte in movimento
La rappresentazione tradizionale ci propone come soggetti che agiscono su una realtà ambientale “oggettiva” intorno a loro, che subisce e assorbe passivamente le nostre azioni, o che comunque è abbastanza prevedibile nelle sue reazioni. Certo le cose si muovono, eventi – anche imprevisti – accadono, ma l’orizzonte in cui avvengono rimane distinto da ciò che accade: fisso, o mutante solo molto lentamente, impercettibilmente. Oggi non è più così. Le nostre azioni e gli eventi che essi producono cambiano non solo ciò cui sono finalizzate, ma si ripercuotono anche sull’orizzonte entro cui avvengono, in modo sempre più rapido e percepibile.
Questo orizzonte intorno a noi non è una più linea fissa che delimita la nostra vista e costituisce il campo relativamente stabile del nostro agire. Questo agire è diventato così potente e pervasivo che l’orizzonte in cui avviene non riassorbe più le sue conseguenze: ce le rimanda, sempre più spesso, moltiplicate, in combinazioni per noi sempre più imprevedibili. L’ambiente intorno a noi sta diventando sempre più respingente, e forse anche autonomamente attivo in senso a noi avverso.
Il nostro agire nel teatro del mondo sta avendo così tanto successo, che sta succedendo davvero quello che di solito si dice solo per iperbole: gli applausi stanno facendo crollare il teatro.
Questa situazione era già stata descritta quasi due secoli e mezzo fa in una famosa ballata: l’Apprendista stregone (Der Zauberlehrling) di Goethe. Nella ballata era già rappresentato quello che oggi chiamiamo “l’avvento della complessità”: quell’infernale dialettica per cui una straordinaria potenza provoca una fatale, crescente impotenza. Un’impotenza che è quasi opposta e speculare a quella dei nostri progenitori primitivi di fronte all’imprevedibilità sconvolgente dei fenomeni della natura. Quella che avvertiamo noi, infatti, è dovuta alla constatazione che ci è impossibile prevedere tutte le potenziali conseguenze delle nostre azioni.
Una volta riconosciuta, con l’assunzione dell’idea di complessità, la nostra inedita posizione di svantaggio cui la nostra stessa potenza ci condanna, abbiamo davanti a noi due possibili risposte: quella “umile” e quella “superba”. Quest’ultima prevede di incrementare indefinitamente la nostra potenza ritenendo che alla fine domeremo la complessità.
Questa alternativa è insensata, perché nasce da un grave fraintendimento della natura della complessità, trattata come se fosse un inconveniente “oggettivo” che riusciremo prima o poi a domare. Non è così. Siamo noi stessi a produrla: è l’altra faccia, l’ombra della nostra potenza che cresce insieme a lei. Pensare di dominarla sarebbe come pretendere di zittire la propria eco alzando sempre più la voce. Perciò la risposta strategicamente efficace può essere soltanto quella “umile”.
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La “risposta umile” della resilienza
La risposta umile alla complessità è la resilienza. Va intesa come rinuncia alla pretesa assoluta di afferrare e dominare la complessità, e come promozione, invece, delle capacità di riassorbire e rielaborare positivamente shock planetari sempre meno prevedibili, sempre più fulminei, alle origini dei quali siamo noi stessi, le interazioni ambientali impreviste da noi provocate.
Vi è una resilienza planetaria e una resilienza locale, riferita a luoghi. Quella planetaria, anche se necessaria, è molto difficile da realizzare, perché richiede che l’umanità entri nell’ordine d’idee di formare un unico sistema interconnesso e interagente che assorbe e rielabora in senso positivo i suoi attriti e le sue crisi interne. Ma anche attuare la resilienza dei luoghi, è molto difficile. Diventa possibile grazie alla loro costituzione in sistemi territoriali al loro interno interconnessi, e interagenti.
Quella sistemica, sia a livello mondiale sia locale, è la costruzione sociale più difficile ed elaborata che l’umanità abbia mai realizzato ma è la sola adeguata a fare fronte alla complessità. Richiede di compiere una straordinaria sintesi degli opposti: il massimo accentramento con la maggiore distribuzione del potere tra le parti; la capacità di resistenza con l’elasticità e la duttilità; la più ampia apertura con il minimo di dispersione.
Un sistema è un’entità “qualitativa”: si sviluppa non quando si estende fisicamente, ma quando favorisce al proprio interno l’autocoordinazione delle parti, l’interazione diretta, creativa – e perciò “rischiosa” – tra loro.
È resiliente quando è in grado di concentrare le forze delle sue parti sui singoli punti critici interni, ma allo stesso tempo di diluire e disperdere, su tutta la propria superficie, l’impatto negativo degli shock esterni globali cui è soggetto, rovesciandoli anzi possibilmente in nuove opportunità. Favorisce particolarmente la resilienza di un sistema territoriale la sua capacità di diversificare le sue attività al suo interno in modo equilibrato, riducendo o almeno differenziando la propria dipendenza da fuori. La tenuta della coesione interna della sua base locale è la condizione perché possa giocare, in modo non subalterno, su più tavoli possibile la partita della sua esistenza.
Questo vuol dire che un sistema territoriale per essere vitale deve essere ambientalmente, socialmente e culturalmente ricco di varietà, costituirsi attraverso un opportuno dosaggio di attività legate ai bisogni “primari” e “oggettivi” (l’ambiente, l’alimentazione, la salute, l’istruzione, la casa, la cultura) e di quelle finalizzate a bisogni “soggettivi” e “secondari” (tra questi c’è il turismo).
La pandemia ora in atto ha agito spietatamente, colpendo soprattutto quei settori economici e sociali legati ai bisogni di quest’ultimo tipo e salvando relativamente gli altri. D’altra parte, è necessario che il sistema mantenga l’equilibrio tra mercato locale e globale, in modo che quello locale resti sempre in ultima istanza prevalente. Non si tratta di ritornare all’autarchia, ma di evitare l’eccesiva dipendenza del sistema locale da dinamiche su cui esso non può intervenire e deve perciò solo subire.
Il turismo come fenomeno industriale di massa
Alla luce delle premesse poste sopra, vediamo ora di considerare il fenomeno del turismo. Esso è diventato un’attività industriale mondiale ad alto impatto economico e ambientale, ma anche sociale e culturale. Riguarda una parte cospicua dell’umanità e tocca più o meno intensamente quasi tutte le parti del mondo e gli aspetti della vita del pianeta.
Può avere effetti benefici o devastanti per l’esistenza umana e della Terra, secondo che sia o non sia adeguatamente governato, contestualizzato, armonizzato, sia in generale con la necessità di ridurre drasticamente l’impronta umana sul pianeta, sia con la varietà e le peculiarità dei luoghi.
D’altra parte, per la sua non necessità primaria per la vita e per la dipendenza da un numero elevatissimo di fattori globali in larga parte localmente incontrollabili (ambientali, geopolitici, economici, culturali ecc.), si trova esposto particolarmente alle crisi sistemiche.
Il turismo industriale di massa, guardato dall’esterno, presenta il problema dell’impatto provocato dalla sua quantità sugli ambienti locali e della sua oggettiva fragilità sistemica. Ma a guardarlo dall’interno il problema più eclatante sembra quello della sua declinate qualità.
Vediamo infatti che esso tende spontaneamente a subire gli effetti di una sorta di “entropia interna”, a perdere qualità quanto più diventa un fenomeno quantitativo, caratterizzato da una cieco, dinamismo macchinale.
Anche in questo caso, analogamente a quella della potenza di cui abbiamo parlato sopra, assistiamo al manifestarsi di una paradossale dialettica, per cui un’attività, nata dalla profonda esigenza umana di vedere e di conoscere il nuovo, si è rovesciata nel suo contrario: in un andare dappertutto senza vedere e conoscere veramente nulla. Dello spontaneo, umano moto alla conoscenza il turismo di massa conserva solo l’esteriorità, il vuoto gesto, non l’anima.
Forse in nessun ambito e attività della vita più che in quella del turismo è più evidente il trionfo della macchina sull’uomo, della quantità sulla qualità, dell’inconsapevolezza sulla consapevolezza. Si tratta di un trionfo molto pericoloso sia perché logora e superficializza l’umanità, sia perché la spinge sempre più ciecamente contro i limiti del nostro mondo terrestre.
Perciò, come le altre attività industriali altamente impattanti, esso va governato esternamente attraverso regole che lo mantengano a livelli quantitativamente compatibili con il pianeta e con i luoghi: devono essere stabiliti tetti, limiti condivisi alla sua espansione. Nei sistemi locali in cui circuita, il turismo deve essere mantenuto in una posizione tale che sia possibile, in caso di crisi sistemica generale, riassorbirne i colpi, sia attraverso rapide riconversioni, sia alleggerendo i danni spalmandoli sull’intero sistema. In generale, la resilienza del sistema locale è possibile a condizione che il turismo sia mantenuto nel ruolo di attività non primaria ma complementare.
Ma deve anche essere vissuto e organizzato internamente in modo da riassorbire il più possibile le sue tendenze quantitative, conformistiche ed entropiche. Anzi, la necessaria riforma riqualificatrice del turismo, prima ancora che attivarsi dall’esterno, deve cominciare al suo interno.
Un turismo di qualità è un turismo solo per ricchi?
Qui siamo al problema cruciale di questa nostra epoca, nella quale il sogno illuministico di un’umanità come tendenziale “aristocrazia generale“ sembra essersi convertito (per un’ennesima, perversa dialettica) nel trionfo della massificazione, della mera piattezza, della quantità senz’anima.
Da questo punto di vista il turismo può essere un fenomeno altamente emblematico di una tendenza che riguarda ogni aspetto della vita umana di quest’epoca. Il problema qui si pone in modo molto concreto e veramente esplicito: ci può essere un’emancipazione (relativa) della qualità dalla quantità?
Non è per un aristocratico “disprezzo dei molti” che indichiamo la massificazione come un effetto perverso della nostra civiltà. Anzi. Dobbiamo superare l’atavico orrore della moltitudine, la cui causa principale, secondo me, sta nel fatto che il suo concetto, al pari di quello dell’infinito, ci risulta sfuggente: la massa ci fa paura perché non possiamo rappresentarcela mentalmente, se non in modo vago e insoddisfacente, come una cortina nebbiosa. Perciò dobbiamo educarci mentalmente a “non vedere” la massa, ma solo individui, le singolarità che la compongono. Se la massa è di per sé incompatibile con la qualità, gli individui come tali non lo sono. Ciascuno per natura è infatti un “qualitativo”.
Noi esseri umani abbiamo per secoli trasformato con le macchine le qualità del mondo in quantità, in prodotti standardizzati, in merce di consumo e in ricchezza quantitativa.
Ma la ricchezza stessa non sa soddisfarsi di se stessa. Ha bisogno della qualità. E infatti la cerca. Per esempio nell’arte, comprandone le opere, facendone un ricco mercato per avere il loro possesso fisico, come nel Medio Evo si faceva con le reliquie dei santi. Ma la qualità, come la santità, non è una cosa che si può vendere e comprare: è un’esperienza.
Credo che ormai ci troviamo nella condizione oggettiva, ambientale, sociale, culturale e anche politica, di non poter più proseguire, come abbiamo fatto per almeno due secoli, con l’obiettivo dell’accrescimento quantitativo all’infinito. I limiti fisici dell’ambiente in cui viviamo e quello della nostra stessa umanità ci impongono di porre fine alle strategie di mero accrescimento quantitativo e di aprire il campo allo sviluppo della qualità. Questa – a differenza della quantità – non ci sono limiti, perché tiene il limite dentro di sé, è essa stessa misura.
Se consideriamo il turismo come fenomeno organico e altamente emblematico del nostro tempo, esso può essere per noi uno straordinario laboratorio. Forse oggi siamo in grado di fare quella rivoluzione mentale e operativa che ci consenta di tenere insieme gli opposti. Di conciliare la qualità con una quantità non mostruosa ma controllata, compatibile.
Le strategie di controllo e di governo esterno del fenomeno turistico potranno essere tanto più efficaci quanto più il turismo stesso sarà in grado di dimostrare di sapere autoriformarsi.
Quest’autoriforma deve saper rispondere positivamente e concretamente alla domanda: si può avere un turismo di qualità che non sia esclusivamente un turismo per ricchi? Se la nostra città, la sua parte più dinamica e riflessiva, saprà realizzare esperienze esemplari di offerta turistica di qualità non necessariamente dipendente dalla ricchezza di coloro cui si rivolge, avrà non solo aiutato se stessa a uscire dalla trappola esiziale della quantità e della monocultura, ma indicato anche al mondo una via di salvezza comune.