Intervento di Maurizio Favaretto

Limiti e rovine di una società liquida

Io sono veneziano, tutta la mia vita l’ho passata nel mondo dell’arte. Mio padre era decoratore, io ero bambino, ed ero quindi nelle case e nei palazzi di Venezia a riparare stucchi, marmorini e compagnia bella. Il nostro “nonno”, chiamiamolo così, era un certo Paolo Caliari: tramite la mamma discendiamo da Veronese. Sono entrato nel mondo della scuola, dopo aver fatto gli studi artistici, per caso; ero molto ribelle da studente, dicono che fossi bravo però ribelle. Ma vincendo un concorso ed entrando nel mondo della scuola io pensavo che mi sarei avvicinato a una persona, ad un collega di una certa età di una certa esperienza e mi sarei accodato e avrei imparato un mestiere. Quando sono entrato nel mondo della scuola io, non c’era nessuno: le persone della tradizione, chiamiamole così, erano già sparite tutte, e c’erano delle persone che proponevano delle cose “moderne” ai nostri studenti. Io sono rimasto tanto perplesso di questa faccenda, ed eravamo fine anni ’80. Non c’era più niente, la tradizione di colpo non esisteva più; l’ho vissuta nei licei di Padova dove mi sono mosso nei primi anni, di Vicenza, e poi sono venuto qui a Venezia, e forse a Venezia ho trovato la situazione più catastrofica in un certo senso. A Venezia ho lavorato per vent’anni sul liceo che è adesso il “Marco Polo”, liceo artistico, e adesso sono al Guggenheim. Ho quindi un’esperienza e una visione abbastanza allargata delle cose; non esistono, non esistevano più quelle lezioni che parlavano del mondo classico, e allora si andava a insegnare delle cose che venivano prese un po’ a destra e a manca, scimmiottando degli autori che andavano in voga di volta in volta – molto ha fatto Munari, per esempio, per la scuola – e ho visto delle persone che confondevano l’insegnamento con il mondo artistico: sono due cose tanto diverse. Io penso che i nostri giovani hanno diritto ad avere una base, una cultura di base che sia adeguata per il paese che vivono, perché noi non abbiamo una tabula rasa alle nostre spalle, abbiamo qualcosa di importante. Esiste questa associazione P.E.R. che si sta occupando di qualcosa che non è un paesetto qualsiasi, stiamo parlando di Venezia e di una storia. Io vivo molto questa faccenda della cultura, di Venezia e dell'associazionismo, e mi sono impegnato moltissimo; ho preteso di reimpostare gli insegnamenti sulla base classica, pensando a tutto quello che in più la contemporaneità poteva portare. Però per me era importante che la figura  e l’ornato fossero come il greco e il latino. Qualcuno dice:” che senso ha in questi anni ragionare col greco e il latino?” e non ne capiscono il valore. Ma per me l’ornato e la figura hanno proprio questo valore , e non si possono eliminare, non si può prescindere da loro.

Voi sapete che stiamo vivendo da lungo tempo una condizione che si è sempre più complicata, perché la società è in crisi, la politica è in crisi, la scuola è in crisi, ma abbiamo abbattuto tutto e tutti, si è fatta una lotta sterminante contro la scuola e contro gli insegnanti; quando diciamo quello che è stato fatto dagli anni ’70 nei confronti degli intellettuali: gli intellettuali li abbiamo annullati in questo paese, e questo vale anche per il discorso relativo alle competenze e alle conoscenze. Dico che la situazione è abbastanza difficile, e io non sopporto più questa condizione e credo che sia il caso di dare una svolta, di girare pagina, di avere delle pareti di riferimento, non che tutto sia mobile e tutto vacuo. Queste pareti di riferimento le possiamo ancora salvare se siamo capaci, perché non è detto che rimangano in piedi da sole, e il fatto che combattiamo per questa città corrisponde in qualche modo a combattere per delle pareti che ci sembrano importantissime, non solo per noi che ci viviamo, ma forse per la comunità intera europea e forse mondiale. Credo che in qualche maniera il corso della storia sia un elemento centrale che fa capire un po’ le situazioni come sono. Come vedete siamo delle persone mediamente mature e anche qualcosa di più, non vedo giovani, e questa è una cosa che si sta ripetendo sempre in tutte le nostre attività culturali, dove i giovani sono i grandi assenti.

È diverso il lavoro che si fa nelle scuole; io normalmente lavoro solo con i giovani, mi trascino schiere di giovani, riesco a coinvolgerli, però il fatto che poi i giovani spontaneamente non partecipino a delle attività culturali, questo la dice lunga, stiamo sbagliando qualcosa anche noi. Sentivo prima che nel progetto  si chiedeva ai licei, alle accademie di partecipare, di far fare ai giovani delle attività a tema, ma i giovani non sanno fare niente, mi dispiace dirlo. Adesso io vi mostro delle cose che ho fatto con i miei giovani, che potrebbero sembrare contraddittorie rispetto a quello che sto dicendo (lasciamo scorrere [le immagini] dietro).

Allora, che c’è da dire? Intanto sono sempre più “piccoli”; i ragazzi che sono al liceo hanno la “maturità” di quelli che una volta erano alle medie, i ragazzi che sono all’università sono come quelli che una volta erano al liceo. In questi anni inoltre  si è fatto di tutto per tagliare, per semplificare; tagliamo fondi alle scuole, il risultato è che quando studiavo io avevo a disposizione 24-26 ore di materie artistiche alla settimana, invece in un liceo artistico abbiamo ora a disposizione 4 ore di materie artistiche. Capite bene che non ne hanno colpa gli studenti. Non sanno fare niente ma non ne hanno colpa loro, è colpa nostra, noi non stiamo facendo niente, non li impegniamo su niente, lasciamo che le cose passino una sull’altra, distruggano tutto, e poi a un certo punto ci troviamo ad avere l'esigenza dicompattarci, di risentirci, di metterci insieme e di far qualcosa. Ma forse abbiamo già aperto la stalla ed è uscito tutto, dovevamo interrompere prima questa tendenza.

Penso che ci sono delle cose che possiamo fare e delle cose dalle quali possiamo prendere delle distanze. Io combatto tanto, per quel che riguarda i giovani, per  impostare una cosa diversa,  cerco cioè di puntare su lavori da fare insieme e sui progetti,  invece di puntare sull’individualità. Fare delle cose insieme è molto più importante che fare delle cose da soli. Noi siamo tutti vittime del Novecento, che ha puntato tutto sull’aspetto psicologico, sull'individuo, ma non ce ne può fregare niente delle nostre budella, è una cosa così personale.  Per un secolo intero ci siamo beccati le frustrazioni, i dolori delle persone pensando che fosse il momento di guardarci dentro; non è più finito questo momento, quando è finito questo Novecento? non finisce mai, nel 2018 siamo ancora dentro pienamente al Novecento. È il momento di girar pagina secondo me. Penso che questo “io”, “io”, “io”, “io” debba finire. Abbiamo bisogno di fare le cose insieme, abbiamo bisogno di collaborare, abbiamo bisogno di fare delle cose che mettano le persone a guardare avanti, a guardare oltre, ad avere dei progetti che ci consentano di guardare lontano, non al nostro naso. Guadare lontano fa sì che ogni persona esce dal proprio io, mentre il Novecento ci ha attanagliato lì dentro, ha creato una scatola, abbiamo vissuto una vita a guardare quello che poteva essere la motivazione per cui noi siamo.

Lavorando insieme abbiamo la possibilità di avere degli obbiettivi che superano le nostre contingenze. Qualcuno pensa che questa sia una cosa  in qualche modo negativa per un artista, per un individuo che si occupa di arte. Ma a guardar bene ci accorgiamo che  appartiene soltanto a  a quest'ultimo periodo il rivolgersi dell'artista a istanze interiori ed individuali se lo confrontiamo con il  lunghissimo tragitto dell’uomo con questa cosa che è l’arte. Al di fuori del novecento abbiamo visto sempre dei grandi lavori collettivi, dei grandi lavori d’insieme, dove c’erano delle comunità alla base delle esigenze del fare. E le immagini che vi ho mostrato relative a questi lavori che sto facendo con i miei ragazzi, sono proprio lavori che nascono per esigenze collettive e nascono come bisogno di una comunità di avere qualcosa di bello in luoghi che sono disastrosi a volte.

Non so se vi è capitato di vedere già l’immagine di questa casa (immagine proiettata) dipinta a seguito di un progetto fatto da un artista su richiesta del comune di Venezia.  La comunità che vive in quel luogo ha poi chiesto se era possibile fare qualcosa di diverso. Allora voi capite che l'interesse dell'artista che pensa di ragionare intorno all’arte contemporanea e produce un lavoro finalizzato a questo, non si  interroga sul modo di sentire della gente che vi abita, né in che modo interagisca e migliori l'agio di chi vive in quel contesto. Si è così creato un così grande divario tra l'opera e la gente. Quindi, nonostante l'intendimento superiore di qualcuno, anche fosse un’attività dal punto di vista intellettuale/culturale valida,  questa operazione si è rivelata un fallimento totale, perché la collettività non l’ha recepito, non l’ha proprio assolutamente digerito.  Quando abbiamo fatto quei lavori noi su quelle case, avevamo un corteo continuo di persone che venivano a ringraziarci e venivano a dirci – Finalmente qualcosa di riconoscibile, di bello che noi possiamo vantarci di avere –

Tutti questi lavori sono in luoghi pubblici, scuole, biblioteche, sedi di associazioni, e secondo me questo discorso di partire da un’esigenza collettiva e portare avanti un progetto che non è che l’abbia fatto qualcuno di preciso, ma che nasce da un gruppo di lavoro, secondo me potrebbe essere anche una strada da percorrere per il nostro futuro. In questa maniera risolviamo alcuni problemi che sembrano ormai irrisolti. Il primo, l’isolamento dell’artista e il secondo, la possibilità di avere un pubblico, cioè di avere la gente che segue e che può in qualche maniera riconoscersi in quello che viene fatto. La terza cosa, per me forse la più importante, educare i giovani a collaborare, a lavorare insieme. Non è così facile,  basta vedere in giro quante realtà ci sono dove i giovani vengono spinti a essere sempre e solo individualisti, e questo è il frutto di questa filosofia contemporanea, di questo modernismo che non finisce mai, che conduce le persone a essere sole e una contro l’altra. Quindi un altro artista che arriva è semplicemente un concorrente, non è qualcuno con cui mi confronto e m’incontro, collaboriamo, facciamo delle cose insieme. Mentre in passato per secoli e secoli è sempre stato così.

Concludendo, vorrei sottolineare che se si ritorna all’origine del senso che aveva il fare delle cose, forse recuperiamo la bussola, perché arte è una parola, un gesto che si confonde quasi, con altre parole. Si chiama amore, e le due cose sono così strettamente legate,  che se noi recuperiamo questo aspetto iniziale, in qualche modo quello che andiamo a fare diventa un gesto d’amore, e non è neanche detto che quel gesto d’amore debba essere, per forza di cose, pagato, sovvenzionato. E questo vi potrà sembrare strano, perché abbiamo sentito anche qui dire come sia giusto  dare agli artisti il giusto, però in un mondo completamente diverso da quello che abbiamo visto. In un mondo del quale si è parlato anche in questa giornata, di che cos’era Venezia, delle gallerie di Venezia, ecco devo dire che non c’è più quel mondo, non esiste più niente, non esiste mercato.

Abbiamo oggi dei riferimenti che sono grandiosi, come la Biennale, dalla quale francamente molti di noi si sentono lontanissimi, e forse non è un punto di riferimento, non lo è più; forse lo sarà per un cittadino americano che ama fare una mostra a Venezia, ma forse per noi veneziani non lo è più. Da artista non sono affatto interessato, altre cose mi possono interessare di più. Vi ringrazio.