Intervento di Agnes Kohlmeyer

Arte per tutti si. Saperne di più aiuta. Accenni al modello di Kunstverein tedesco e racconti di un laboratorio d'arte consapevole

Ho appena deciso che non farò vedere immagini perché ne avrei troppe. Avevo portato qui con me un file con le foto di tutto un laboratorio che si è concluso ieri con una mostra finale, molto bella e ben riuscita, ma sarebbe troppo riduttivo farvi vedere solamente alcuni dei progetti, troppo casuale. Ho 450 foto, forse non è il caso di farne vedere solo 20. Questo file contiene le storie di 47 progetti dell’ultimo laboratorio di arte finale che da ormai 10 anni tengo allo IUAV con questa formula piuttosto particolare.

Prima però, vorrei presentarvi brevemente la mia figura professionale e introdurvi in questo modo un po’ meglio al perché e al come sono arrivata a questo mio modo di operare, e al modo di lavorare con i miei studenti, che in parte sono già da considerare degli artisti agli albori della loro produzione artistica.

Sono tedesca, e mi sono formata a Berlino dalla metà degli anni ’70, studiando, tra altre materie filologiche, la storia dell’arte.

Ho scoperto presto di voler diventare una curatrice d’arte, perché in Germania l’arte contemporanea è molto presente anche presso la popolazione più o meno “normale”, essendoci migliaia di istituzioni che si occupano della produzione dell’arte contemporanea. Lo stato stesso interviene ed aiuta moltissimo, perché considera l’arte e la cultura in generale un bene comune ed importante per la vita dei suoi cittadini. Personalmente sapevo già da molto giovane dell’esistenza della professione di curatore di mostre, ed era del tutto normale per me e per le persone che avevo intorno frequentare mostre, anche quelle dell’arte recentissima. Vivendo e studiando a Berlino, questa abitudine si è intensificata. Subito dopo la fine dei miei lunghi anni di studi (che comprendevano anche un piccolo primo impiego universitario) sapevo con sicurezza che per prima cosa avrei voluto avere l’occasione di curare o co-curare delle mostre per avviare una professione.

Ricevetti questa occasione nel 1983-84 a Berlino, in una grande mostra di architettura e arte dove per mia fortuna ebbi modo di conoscere alcuni artisti già noti come Giulio Paolini e Luciano Fabro dell’Arte Povera italiana. Per me è diventato questo lo standard: lavorare con un artista bravo e profondo, spesso già noto, con cui entrare in un dialogo continuo intorno all’arte e alle questioni del mondo.

Questa mostra fu in seguito portata alla Triennale di Milano, e io, entrando così anche professionalmente in Italia, essendomi trasferita a Venezia nel 1984 e imparando l’Italiano, curai un enorme catalogo, feci delle ricerche e conobbi pian pianino il mondo dell’arte italiano. Mi accorsi presto che la realtà artistica italiana era diversa da quella che conoscevo, che in Italia l’arte contemporanea ha un valore meno importante che non in altri paesi, o così almeno mi sembrava. L’arte contemporanea non pareva essere parte della vita quotidiana dei cittadini in generale, e neanche della maggior parte degli intellettuali. Certo, c’è tutta questa arte antica, dovunque uno guardi e cammini, ma in fondo – così mi dissi - non potrebbe proprio questo essere una base per la curiosità verso il futuro e una futura produzione artistica? Evidentemente non era sufficiente.

Dopo 10 anni di vita in Italia, i miei amici e gli amici di mio marito ancora mi chiedevano “Che cos’è questa tua professione, quella del curatore d’arte, che cosa stai facendo veramente?” Allora, ma anche secondo la mia visione dell’internazionalità dell’arte, mi sono presto mossa in tutto il mondo, ho viaggiato, ho curato molte mostre, ho scritto sull’arte, ho dialogato con artisti, sempre. Dapprima ho lavorato con Pontus Hultén a Palazzo Grassi quando lui era Direttore artistico sotto la FIAT. Per me erano i primi anni di una vera formazione sotto un grande maestro della mia professione, considerando Hultén in assoluto il primo vero curatore delle mostre, il primo storico dell’arte che davvero lavorava nello spazio espositivo accanto agli artisti, per creare tutti insieme la mostra. Per me nello specifico questo periodo lavorativo di quasi tre anni significò non solo entrare e conoscere il campo dell’arte e i suoi protagonisti, e di imparare un po’ tutti gli aspetti della curatela e dell’organizzazione delle mostre, ma anche vedere come ci si muoveva l’Italia.

Decisiva per me in questi anni con la FIAT divenne poi la nozione del dover stare molto attenti, specialmente in un paese dove c’è poca professionalità nel campo della produzione artistica e dove di conseguenza ci sono e si formano solo relativamente pochi veri professionisti. Attenti che quell’industria, quel privato – che pure sponsorizza, finanzia e organizza delle opportunità per le mostre e la produzione artistica - non influenzi troppo pesantemente i contenuti. Per questo motivo ho lasciato Palazzo Grassi dopo alcune brutte esperienze in questa senso, e da allora mi sono sentita una libera professionista, critica d’arte e curatrice. In questa veste ho diretta una rivista d’arte (con sedi a Venezia e New York), ho curato e collaborato a molte mostre, grandi e piccole, ma sempre lavorando internazionalmente, e ho avuto poi nel 1998/99 la grande fortuna di poter lavorare con Harald Szeemann alla sua prima Biennale a Venezia, quella che per pretesa dello stesso Szeemann, di poter disporre di più spazio espositivo in città, aprì anche tutto l’Arsenale al pubblico per la prima volta.

Abbiamo vissuto entrambi un bellissimo anno di lavoro, e oltretutto per me si verificava la desiderata conferma che un curatore più grande di me potesse arrivare anche ad una certa età con la stessa passione, la gioia e la profondità nel suo lavoro con l’artista, malgrado la spesso pesante burocrazia e i tanti problemi, anche finanziari, in cui si corre nel costruire una così monumentale mostra in così poco tempo, così come è consuetudine nel caso della Biennale di Venezia. Mi stupì però che anche la figura generalmente considerata IL più grande curatore in assoluto, mi disse all’inizio della nostra collaborazione a Venezia “Devi ammettere che dopo l’Arte Povera e la Transavanguardia in Italia non è più successo nulla”. E io gli risposi “Ti sbagli, perché i giovani artisti ci sono eccome, ma non sono visti, non sono considerati, non hanno cataloghi o aiuti istituzionali che li fanno crescere. Allora o sono veramente fortunati, o vanno all’estero, e si formano altrove o vivono nell’underground tra di loro, in ogni caso - non sono visti”.

Infatti, per tanti anni né a Documenta a Kassel o alle Biennali e la maggior parte delle altre grandi rassegne internazionali, si sono visti molti artisti italiani, esattamente per questo motivo. In quell’anno però ebbi l’occasione di far vedere e conoscere a Szeemann tanti studi d’artista e tante gallerie, e lui alla fine invitò ben 14 artisti italiani sui 120 invitati in totale. E le 5 artiste donne sui 14 in totale finirono per vincere il Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale, per la prima volta nella storia della rassegna veneziana.

Probabilmente c’entra anche questo episodio e quest’esperienza, nell’aver fatto scattare in me una maggiore attenzione e cura nei confronti dei (più o meno giovani) artisti italiani.

Dopo questa esperienza in Biennale mi chiamò un Kunstverein in Germania, quello di Ludwigsburg, una cittadina barocca vicino a Stoccarda, per dirigere per alcuni anni, dal 2000 al 2003 la loro bella sede, trovandosi in una villa ottocentesca in un grande giardino, al bordo della città (un poco come alla fine dell’Ottocento anche la Baronessa Felicitas Bevilacqua La Masa aveva ceduto la sua Ca’ Pesaro alla Città di Venezia a favore della produzione artistica dei giovani Veneziani).

Tra il 2000 e il 2003 mi sono mossa tra Venezia e Ludwigsburg, con pochi soldi a disposizione, ma in cambio una grande libertà decisionale. Ho prodotto 22 mostre internazionali, personali e di gruppo o tematiche - usando le mie buone idee e i molti contatti acquisiti in precedenza, ma creando contemporaneamente anche un gruppo di amici sul luogo che offrivano ogni sorta di aiuto.

Mentre l’Italia risulta relativamente povera di istituzioni producenti l’arte contemporanea, la Germania invece ne è piena, ed esistono, tra musei, fondazioni, Kunsthallen e Kunstvereine migliaia di strutture in tal senso. I Kunstvereine hanno una formula interessante, in quanto si tratta di associazioni cittadine con una lunga tradizione. Già a partire dalla metà dell’ottocento sono stati fondati in molte città, per volontà di persone di solito già un po’ vicine all’arte che invitavano artisti ad esporre le loro opere. Tutti – pagando una piccola quota, e anche oggi sono sempre cifre relativamente minime, tra i 50 o 100 Euro annuali -, possono aderire e diventare membri. In cambio i membri vogliono essere vicini alla produzione dell’arte, vogliono imparare, discutere e sentirsi coinvolti. Oggi in Germania esiste una rete di circa 2000 Kunstverein di ogni grandezza (tra i 100 e i 8.000 membri). È chiaro che da quando anche i Kunstverein vengono quasi sempre aiutati finanziariamente dalle città e preferiscono farsi seguire da dei curatori professionali, c’è poca differenza ormai tra un Kunstverein medio e una Kunsthalle o un altro tipo di struttura, basta che non abbia una propria collezione, ma sia solamente concentrata sulla produzione e la divulgazione dell’arte, ovviamente con una forte ambizione didattica. In genere un Kunstverein organizza intorno alle sue mostre anche tutta una serie di eventi, tra visite guidate e spiegate, anche quelle specifiche, magari per bambini, per anziani o anche per dei manager nelle loro pause pranzo. Non ci sono limiti negli stimoli per il pubblico, e molte volte le richieste specifiche vengono anche da parte dei membri stessi.

Molte volte ho pensato in passato “Perché non portare quel modello anche in Italia?” Ci ho provato, ma non è facile. Perfino nelle mostre che ho curato io qui in Italia, il discorso introduttivo in cui si spiega un po’ di quello che si è fatto e del perché, spesso non viene gradito, e mi sono sentita dire “No, da noi non si usa tanto, non si spiega”.

Quando nel 2003 ho finito il mio lavoro con il Kunstverein, mi hanno invitata allo IUAV a insegnare alla Facoltà Design e Arti fondata nel 2001, dove venivano invitati soprattutto professionisti, almeno durante i primi 5, 6, 7 anni questo era possibile ed era la forza di questa scuola, nata un poco sul modello del primo Bauhaus a Weimar. Quasi tutti gli insegnanti erano professionisti - quindi artisti, curatori, registi, scenografi, costumisti, filosofi, scrittori, semiologi e altro, e venivano da tutto il mondo, professionisti e non professori strutturati. Tutti voi sapete benissimo che cosa è successo poi proprio in quegli anni, la legge Gelmini e tagli finanziari in continuazione, soprattutto nel campo della cultura e ancora di più delle arti visive. Oggi siamo a malapena sopravvissuti. E per forza delle cose e degli equilibri dei poteri siamo più legati alla facoltà di architettura, e noi pochi restanti che ci occupiamo di arte contemporanea siamo strutturati come una piccola appendice di Design della Moda. Rispetto ai bei tempi di 15 anni fa, dove tutto il mondo guardava questa piccola ma squisita facoltà del tutto eccezionale, siamo rimasti in pochissimi ad occuparsi di Arte. La maggior parte degli artisti sono andati via o non sono stati riconfermati, perché costano troppo. E io, pur sempre rimasta libera professionista (questo lo devo, credo alla mia breve esperienza come “impiegata Fiat”), sono una delle ultime sopravvissute che da 15 anni insegna in continuazione. Non ho mai voluto entrare in nessuna struttura, volevo rimanere indipendente, e faccio, quando posso, ancora parecchie altre cose da curatrice.

Ma l’insegnamento dei giovani futuri artisti si è rivelato per me, che non volevo mai insegnare, per la mia stessa grande sorpresa, come un mestiere meraviglioso, e rappresenta per me praticamente la chiusura di un cerchio. Vedevo davanti a me dei giovani adulti creativi e molto coscienti di sé, alcuni di loro fanno già le mostre, e quindi significava, essere eventualmente a un singolo passo di distanza dall’artista con cui si lavora poi anche nella “realtà” della produzione. E la possibilità di essere a volte la prima a scoprire qualche cosa di geniale già anche in una persona giovane di soli 22 o 23 anni si è rivelato poi come la cosa più gratificante che io possa provare.

Anche questa è forse una delle cose che ho imparato da Szeemann, perché non sono molti i curatori che hanno il coraggio di essere il primo a voler scoprire e presentare un artista. Se uno non ha ancora fatto determinati passi nella sua carriera, molti colleghi non sono particolarmente curiosi nei confronti di questo artista. Ma io si. Allora da 10 anni - dopo che ho dato vari corsi di storia dell’arte contemporanea, o di “tendenze dell’arte contemporanea”, di avvicinamento al sistema, alle mostre, alle “pratiche artistiche” e a tutto quanto -, tengo un laboratorio piuttosto complesso, che dura ogni anno da fine febbraio a giugno, quasi quattro mesi, durante i quali tutti gli studenti (che si trovano alla fine dei loro studi della Triennale) escono dalla scuola, dapprima con me, poi anche da soli, e vanno in giro per Venezia, per le isole e per lo hinterland, e si fanno incantare o anche inquietare da un specifico luogo che non sia più lontano di un’ora di distanza con i mezzi pubblici dal punto della scuola. E lo studiano e cercano di conoscerlo in profondità per poi poterci realizzare un vero progetto artistico.

Siccome sono anche tanti studenti che vengono da fuori, o dall’estero, e non conoscono bene Venezia (e molte volte quelli che la conoscono anche un poco hanno dei pregiudizi, e non gli interessa più di tanto questa città “triste, brutta e turistica”) noi per inizializzarli, gli facciamo conoscere Venezia in profondità, e questo metodo lo chiamo “wandering-wondering”, e lo stesso Laboratorio si chiama “wandering-wondering” ormai da molti anni.

Vuol dire che ci muoviamo sistematicamente, camminiamo e usiamo i vaporetti o gli autobus, vediamo delle meraviglie, dappertutto. Nel centro storico e nelle chiese, nei musei o nelle gallerie, sulle isole con le loro spiagge solitarie, nei mercati, ma anche nelle zone problematiche, senza assolutamente alcuna distinzione. Poi, come già accennavo, ognuno si deve trovare un posto che gli “parla” e deve poi sviluppare pian piano tutto il suo progetto, deve cercare di conoscere l’eventuale popolazione, per poter chiedere degli aiuti se necessario, e magari il parroco può dare l’accesso ad una chiesa chiusa o va “sedotto” dall’intelligenza di un progetto. Spesso i vigili vengono chiamati in causa o appaiano da soli, e i giovani futuri artisti devono anche imparare a cavarsela, e a discutere con loro, e convincerli dell’importanza delle loro azioni, ecc.

La maggior parte di questi studenti alla fine creano dei progetti molto belli ed approfonditi, anche perché li accompagniamo abbastanza a lungo con le nostre revisioni, ogni dubbio viene discusso, ogni genere di problemi, e a volte anche non poche ansie o insicurezze. Parliamo di tutto, cerchiamo di dare forza e fiducia in continuazione. Fino al momento finale, alla presentazione, il “momento pubblico”. Alla fine, seguendo un fitto calendario di 5, 6 progetti al giorno tutti quanti presentano i loro progetti, e quest’anno erano 47 partecipanti, 10 di loro stranieri. Ovviamente tutto questo è anche molto impegnativo e a volte stancante, ma di solito così bello ed emozionante, che della stanchezza quasi non ci si accorge. Spesso vediamo e scopriamo insieme degli spazi molto particolari che io stessa a volte non ho mai visto prima. Eppure sono molti anni che cammino per Venezia e le sue isole, anche per conto mio, e ancora vale questa piccola sfida mia personale con me stessa, che ogni giorno vorrei ancora scoprire una “meraviglia” che ancora non conoscevo. Nei luoghi più appartati di questa nostra città e la sua laguna, nelle chiese, sui quadri, nei campi abbandonati, fino a Ca’ Roman, quell’incredibile “isola che non c’è”. La nostra prima gita comune ogni anno è sempre quella più che affascinante della famosa linea “11”: Partendo dal Lido via Pellestrina e Ca’ Roman, fino a Chioggia e poi indietro alla sera, verso il tramonto. Alla fine molti studenti ovvero futuri artisti elaborano i loro progetti in questi luoghi davvero fantastici in mezzo alla più bella e particolare natura o la più totale solitudine. Ovviamente vengono anche toccati i problemi, come i veleni che vengono buttati nella Sacca di San Mattia, oppure l’acqua alta a Venezia, o il turismo soffocante. Qualcuno va nelle carceri o nelle strutture per i senzatetto.

Come menzionavo già, non pochi studenti lavorano sul malessere personale, sulle proprie ansie, e magari anche poi sul coraggio di re-agire. E noi li spingiamo, li tranquillizziamo e li aiutiamo.

Alla fine ognuno indipendentemente prepara e presenta una sua piccola mostra nel “suo” luogo, comprendendo anche tutti i temi della comunicazione, dell’ospitalità e della grafica, alcuni preparano perfino un piccolo catalogo.

Quest’anno per la prima volta dopo 10 anni di laboratorio – negli altri anni alla fine subentrava sempre troppa stanchezza e troppo lavoro – abbiamo provato a mettere in piedi anche una mostra finale, di ritorno nelle nostre aule con i vari materiali documentari dei progetti, e ieri l’abbiamo inaugurata, ai Magazzini Ligabue vicino alla Marittima. Quello che è venuto fuori come risultato finale, è stato semplicemente meraviglioso e ne è valsa tutta la pena. Ovviamente nella mostra si vedevano solo tutti quanti progetti riportati come documentazioni. E allora tutto quello che si poteva vedere, era una nuova elaborazione, e c’era stata ancora la chance per dell’autocritica, tutto poteva ancora una volta essere presentato in modo diverso, ripensato ancora. Per forza è venuto a mancare l’elemento decisivo della bellezza e dell’atmosfera dello spazio originale, e mancavano il cielo, il mare, il temporale o il buio della chiesa, per esempio laggiù nella grotta di San Simeon, (insomma una vera esperienza con e anche per gli studenti tedeschi nostri ospiti quel giorno durante una serie di presentazioni!). Ma al posto del fascino del singolo luogo, si inseriva la enorme nuova vastità di possibilità di presentazioni, di vicinanze e rinforzi a vicenda tra i singoli progetti, di nuovi riferimenti ad altri e di nuovo sconosciuti spazi espositivi e le loro condizioni. Il sospetto e la speranza che con quella mostra di ieri tutti avrebbero potuto riprendere in mano e in considerazione i loro temi e materiali raccolti e perfezionarli ed elaborarli ancora e portarli ancora avanti sì sono verificati a pieno.

Concludendo penso che oggi, che il mondo e finalmente anche l’Italia si trovino travolti ormai da espressioni “artistiche” di ogni genere e provenienza e spesso di più che dubbia qualità se non addirittura di grande superficialità e vuoto -,

quell’altro tipo di arte così elaborato invece, ideato, pensato e ripensato, addirittura “sofferto”, nato da una autentica “necessità” di venire fuori e di esistere, capace di educare ed emozionare, di farci ridere e piangere - , sia quello che più che mai ci muove e che ci racconta la vita, la vita vera.

Io personalmente, finché posso, voglio avere a che fare con questo tipo di arte nella vita (o anche vita nell’arte), e se posso essere anche solo una piccola parte di tutto questo, ne è valsa la pena, tutta.